Pierfranco Bruni: “Il mare lega, non separa mai”

AgenPress. Taranto è un pellegrinaggio. Era di Ferragosto. Una antropologia tra l’immateriale e la materialità. Erano gli anni Settanta. La fine. Proprio la fine del Settanta. Arrivai a Taranto. Quasi spaesato ma giovanissimo. Con il sorriso della giovinezza. Taranto è stata nel mio viaggio. Una città è destino. Ricordo che mi venne incontro subito una palma. Il castello è le colonne. In quegli anni Taranto era bella. Ma bella, sul concetto di bellezza recupero il senso dell’immaginario estetico, nelle fotografie che non dimentico. Una città sovrana della Magna Grecia per le sue eredità e suoi tramonti di rosso sul mare.

Ero stato la prima volta a Taranto da ragazzino. Trascorrevano le estati con mio padre  mia madre e mia sorella a Trebisacce. E da da lì spesso raggiungevamo Taranto per un pranzo al famoso storico Gambero. Era di Ferragosto. Giulia, mia sorella, amava tanto Taranto. Ricordi immensi. Era bella Taranto. Poi mi portarono in gita scolastica in terza media a visitare il Museo archeologico.

Chi avrebbe potuto mai immaginare che, dopo alcuni, tanti, lustri, sarei finito a fare l’archeologo proprio alla Soprintendenza di Taranto, anzi della Puglia con sede, allora  centrale a Taranto. Ma fu anche la città di mio zio Mariano, il quale vi ha trascorso diverse estati. Veniva chiamato spesso come presidente di commissione  per gli esami di maturità nei licei. Giungeva a Taranto da Cosenza. Passano gli anni! Ma c’è di più. A 18 anni spaccati ho preso la patente. Con il mio gruppo di amici andammo, venimmo, a festeggiare proprio a Taranto questo grande evento. Arrivammo nel primo pomeriggio. Ai tempi della fiorente La Sem.

Che tempi in quel tempo. Taranto era la città ideale nel mio viaggio di viandante inquieto  in un ulissismo tra vento e maree. Quanti decenni ho abitato Taranto? In quanti modi mi ha attraversato Taranto? Se gli anni passano le città restano con i loro spazi e i luoghi. La città vecchia, in quella temperie in cui venni a Taranto, era vecchia abbastanza. Ora è antica. Scorci amabili sul porto in custodia di vele che danzano sulle onde.

A pensarci ora: Taranto doveva rappresentare una città di passaggio. Eppure non sono mai realmente andato via. Tra partenze e ritorni e poi ripartenze è diventata una geografia dell’anima oltre la mia Calabria. Infatti sono rimasto più anni a Taranto che nella mia terra calabra che è un cammino in fuga. La Concattedrale mi viene incontro con la sua modernità pontiana. Viale Virgilio è un lungomare dannunziano. Viale Magna Grecia è il mio primo scavo archeologico. Via D’Aquino è una passeggiata tra librerie di un tempo sommerso e lo sguardo dritto sull’Arsenale. La Ringhiera è lo specchio di una grecità profonda. Un tempo qui tutto era greco, disse Pavese arrivando a Brancaleone.

A Taranto è tutto antropologicamente magno greco con i versi di Raffaele Carrieri. L’impatto con le vetrine è uno specchio in cui Giacinto Spagnoletti ricordava il padre tra gli echi di Leonida e di Archita. Il tempo si consuma in un ferragosto di sole spaccato dalle correnti dei Due Mari. Tutto è riconducibile ad una architettura nella quale i segni sono diventati archetipi e il mito si respira come se fosse ieri. Il Mediterraneo è un destino imprescindibile che portò nei miei passi tra il Ponte Girevole che ha il nome del mio Santo paolano e il Ponte di Pietra che è come un sigillo d’ingresso in una storia che racconta e si racconta nel cantico di San Cataldo. Qui il mare lega e non separa. Non separa mai il mare di Taranto.

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