Inchiesta Covid Bergamo, Cartabellotta (Gimbe): “Il revisionismo storico e la caccia alle streghe mi piacciono poco”

AgenPress. Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” condotta da Gianluca Fabi e Roberta Feliziani su Radio Cusano Campus.

Sull’inchiesta di Bergamo.

“E’ difficile per chiunque di noi giudicare fatti avvenuti in un periodo emergenziale, quando nessuno sapeva nulla su questa pandemia. E’ difficile farlo oggi a mente fredda, senza l’emotività che contraddistingueva anche chi prendeva le decisioni in quel momento. Questa è un’inchiesta giudiziaria, ma sta nascendo anche una commissione parlamentare d’inchiesta. Non entro nel merito degli aspetti legati all’inchiesta. La cosa più importante è quanto riusciamo a imparare dagli errori del passato per migliorare la nostra sanità e poter fronteggiare un’eventuale altra pandemia. Il revisionismo storico e la caccia alle streghe mi piacciono poco.

Il problema è la zona grigia che si crea tra competenze statali e competenze regionali e proprio in questa zona grigia potrebbero essersi verificate le principali criticità. In nessuna regione e in nessuna struttura sanitaria sono state fatte esercitazioni per gestire una pandemia. Chi lavora in pronto soccorsa sa che può arrivare il paziente con l’infarto, con l’ictus, non può arrivare il paziente arrivato sbarcato dalla Luna con la navicella spaziale. Noi con la pandemia ci siamo trovati di fronte a qualcosa che nessuno sapeva come gestire, quindi ci sono volute un po’ di settimane per capirlo, poi ovviamente c’è tutta la questione dell’impreparazione e della mancanza degli strumenti adatti”.

Sulla gestione della raccolta dei dati.

“Noi in questi anni abbiamo fatto una battaglia sulla trasparenza dei dati, perché i dati devono sempre essere messi a disposizione dei ricercatori. E’ evidente che la cultura del dato sanitario in Italia non è mai decollato, spesso i dati non sono pubblici, c’è sempre una grande fatica per reperirli. I dati dovrebbero essere patrimonio di tutti, in quanto tutti noi paghiamo la loro raccolta. I rapporti col Ministero della Salute erano buoni, io mandavo i dati al ministro Speranza. In quel periodo io sollecitavo molto la chiusura del Paese, perché il mio timore era che se la pandemia fosse scoppiata al sud, con la sanità disastrata che c’era, sarebbe successo il finimondo”.

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