AgenPress. Resistere. A cosa? Alla malinconia? Alla nostalgia? Alla solitudine? Ma se marcisce anche il pensiero (Manlio Sgalambro) come si può resistere a uno scavo della sobrietà illuminante che ferisce le emozioni? Sua emozione. Anche la morte è una emozione che noi non riusciamo a vivere nel momento in cui tocca il nostro tempo interiore. Tanto meno riusciamo a consolarci per la nostra morte quando la morte arriva. Pensarci è comunque resistere alla vita.
Bisogna mettere ordine alla grande confusione della coscienza che opprime il pensiero stesso. Perché: “Si leva il vento delle parole/perisce la proporzione, le/ stimmate dell’assunzione/ si cancella l’insubordinazione”. Ciò avviene quando il crepuscolo diventa notte e i fatti futili e vani sono oltre il profondo. Perché dovremmo uscire dall’irrazionale? Per vedere ciò che della morte rimane. Dopo di essa non siamo più soli perché entriamo in quella spirale che è il ricordare negli altri che restano. Oltre il caos e il labirinto dove una via può essere attraversabile, nonostante la luna completamente nera, c’è anche la spirale. Un inizio e una fine. Ovvero l’inizio misterioso e la fine devastante.
La fine è sempre voragine devastante che però incuriosisce. Siamo fatti di curiositas. Fino a quando questa domina siamo nel campo di Giobbe. Quando scompare siamo nel calvario e nella terra di Giuda. La necessità, o il necessario, di Cartesio viene superata/o. Ma grazie a cosa? Ad aver abbandonato il dubbio e la ragione della desolata terra (un po’ come in Eliot) per un promessa terra (non solo biblica ma mitica da mito).
Sgalambro ci intristisce dicendo: “… se i confini tra il giorno e la notte non sono mai stabili e sicuri non è, forse, che non c’è nessun giorno e c’è solo il crepuscolo e la notte?”. Più che tristezza è agonia dell’agonizzante. In questa visione tragica della storia c’è solo la sconfitta. Il viaggio all’inferno trova lungo il percorso uni spiraglio in cui ogni ombra può sfuggire al crepuscolo e non diventare notte. Non so se l’ombra abbia un incipit prima dell’aurora o dopo.
L’ombra è a volte impenetrabile. Qui avviene un incontro che è quello tra il consolatore e il morente. Qui cerco la solita chiave. Cosa fa la filosofia? Sgalambro si pone davanti a questo interrogativo: “Se non sai consolare un morente, a che vale tutta la tua filosofia?”. La consolazione diventa un morire insieme. Arriva tutto alla fine. Il filosofo è una costruttore di devastazioni oltre la morte o di attesa o di rivelazione. Negli ultimi istanti nasce una filosofia che sta oltre le pagine scritte già.
Ancora Sgalambro: “…gli ultimi cinque minuti nella vita di un uomo sono tutto ciò a cui possiamo badare”. La consolazione è un consolatore che usa la pazienza e si impossessa della morte “… e gliene toglie la spina dolorosa”. A questo punto si affaccia sulla scena Anatol. Ovvero un mondo come volontà e rappresentazione. Il quale dice: “Nel malinconico destino della filosofia, trovai la via”. Anatol è l’altro io o il vero io di Sgalambro o della filosofia stessa? L’urgenza è data dal segreto che ogni pazienza possiede. La solitudine è pazienza come la malinconia o la nostalgia. Ecco. Bisogna resistere a non rivelare il segreto della pazienza e restare pazienti fino a fermare la devastazione del crepuscolo – notte.
Resistere è saper mantenere vivo il segreto. Perché “…solo l’uomo che è capace di tenere un segreto e degno di essa”. Il segreto è in quella solitudine dove tutto si raccoglie in un vento di malinconie che hanno l’eco di nostalgie tra un tempo che non c’è più sul piano del reale ma che continua a esserci sulla tastiera del mistero. Inconfondibile.
In filosofia il segreto è un tempo in quella fenomenologia della memoria che è memoria della parola. Bisogna restare nel segreto per non cedere alle lusinghe e alle illusioni. Resistere è restare con sé stessi. Bisogna saper mantenere il segreto. Una filosofia della pazienza in ogni tempo perduto.
Pierfranco Bruni