AgenPress. Chissà cosa avrebbe scritto Lawrence Durrel, lo scrittore e poeta britannico scomparso nel ‘90, se avesse assistito agli episodi di violenza sulle donne accaduti in questi ultimi anni. Lievitati numericamente in maniera esponenziale e con una recrudescenza impressionante, avrebbe certamente coniato un altro lessico rispetto a quello utilizzato nel suo romanzo Justine. O, forse, si sarebbe limitato a chiedersi cosa si celi nella testa di un uomo che cede alla violenza. Ovvero nella testa che cede alla violenza prima su se stesso che nei confronti di una lei. Sì, prima su se stesso.
Al netto di ogni lettura scientifica, sociologica e patologica, o di suggestivi insegnamenti sentimentali, non vi è dubbio che chi usa violenza su una donna lo fa perché è vittima di se stesso. Dall’educazione che ha ricevuto, del contesto che ha abitato, della scala assiologica lungo la quale ha avuto modo di confrontare e di confrontarsi, dietro la quale si è nascosto o dalla quale si è distanziato. Su ogni episodio di violenza si discute spesso troppo o troppo poco, e forse male. Le chiavi di lettura che se ne danno sono le più variegate e, certamente, risentono delle impostazioni e delle provenienze professionali dei commentatori. Tutte legittime, per carità, e tutte qualificanti e qualificate.
Un dato comune a tutti gli episodi, specie a quelli più efferati, è la teatralizzazione mediatica che, se da un lato ha la meritoria capacità di sensibilizzare l’opinione pubblica, dall’altro nasconde il rischio di un vorticoso e pericoloso corto circuito, innescando nei confronti di chi gravita già ai bordi di un rapporto lacero e lacerato con una donna, magari con la sua donna, un effetto emulativo pericolosissimo. Il problema della violenza sulle donne è un problema che involge aspetti multiformi, alcuni noti, altri ignoti, altri colpevolmente inesplorati.
Due, però, sono i segnali più allarmanti che ci devono chiamare a raccolta. Il primo è, se vogliamo, atipico: la conflittualità fra uomo e donna è cresciuta con riverberi spesso di inaudita violenza nel momento storico in cui i rapporti fra uomo e donna sono sensibilmente più facili e facilitati rispetto al passato e in cui l’autorevolezza della donna nella società si è decisamente accresciuta. Il secondo è l’oblio in cui ancora stagnano molti episodi di violenza perpetuati all’interno della famiglia. Taciuti per paura o per pudore, entrambi gli aspetti hanno un denominatore comune. Il dissesto della famiglia che da elemento fondante della società ne è diventato variabile eventuale. Immolato attorno a modelli di affermazione individuale, di egocentrismo esasperato e di competitività spinta che rappresentano la stanza dove coltivare, in caso di fallimento, il senso di rivalsa verso chi è più vicino ad un uomo, ovvero, la lei che gli sta a fianco.
Usare termini tecno-giuridici più appropriati, avvicinare ad una cultura eterodiretta dei sentimenti, inasprire sanzioni penali non è e non può essere, allora, l’unica strada da percorrere se la società continua ad erogare assiomi di perfezione e di risultato sempre più martellanti, se la deresponsabilizzazione da ogni dovere è da ritenersi incolpevole, se si lavora su modelli educativi troppo distanti da quella centralità dell’essere che pare sfuggirci. Tutto potrà tornare utile. Tutto, però, sarà tristemente vano se non torneremo ad interrogarci sul perché della donna. E, quindi, sul perché dell’amore, della sofferenza e della letteratura.
Dottoressa Luciana Carolei
Responsabile Coordinamento Donne Cisl Medici Nazionale