Fiction di Canale 5 “ROSY ABATE – Seconda stagione” – puntata del 04.10.2019
Agenpress. Qualificati esperti di comunicazione hanno messo in evidenza come l’ascolto attivo, la trasparenza, l’integrità, l’apertura verso la stampa sono – dovrebbero essere, anche per il Corpo di Polizia Penitenziaria… – valori essenziali ed elementi portanti dell’attività di comunicazione, sia con l’ambiente esterno sia con quello interno.
La cultura della Polizia Penitenziaria, così come quella della Polizia di Stato, è formata dall’insieme dei valori, credenze e linguaggi che sostengono il suo mandato.
L’assoluta trasparenza dell’immagine diventa il punto centrale della politica di comunicazione in quanto crea le migliori condizioni di visibilità dell’istituzione da parte dei cittadini che, a loro volta, saranno stimolati ad avere più fiducia e ad aprirsi.
Su questi temi, l’Amministrazione Penitenziaria è assolutamente carente, e lo diciamo non da oggi.
Non basta bandire un interpello quale “Referente per la Comunicazione della Polizia Penitenziaria” se poi l’incarico non viene affidato a chi è il più qualificato e titolato in materia e non assume le necessarie iniziative quando è necessario!
Nei giorni scorsi avevamo segnalato – senza ottenere alcun riscontro – come in una recente puntata della fiction TV “Un passo dal cielo”, andata in onda su RaiUno, le scene ambientate in un istituto penitenziario fossero state rappresentate in maniera totalmente distante dalla realtà, offrendo dunque una rappresentazione del carcere fuorviante e lesiva per l’immagine del personale e dell’Amministrazione penitenziaria.
Questa sera, nella puntata della fiction tv di Canale 5 “Rosy Abate – Seconda stagione” è andata, forse, peggio.
E’ stato infatti rappresentato nel carcere minorile di Nisida nel quale taluni poliziotti sono corrotti, al soldo di pericolosi criminali, assistono a detenuti che si drogano senza assumere provvedimenti, consentono colloqui con avvocati che usano e fanno usare telefoni cellulari e cedono orologi di valore a ristretti per traffici illeciti, consentono il pestaggio di un ristretto.
Poliziotti che addirittura detengono alla cinta della uniforme di servizio un manganello come arma individuale di dotazione in uso e che favoriscono l’evasione di un detenuto, con la complicità di un poliziotto di altra Forza dell’Ordine che anziché impedire l’evento picchia uno degli Agenti del carcere!
Insomma, una serie di inesattezze di gravità inaudita: e potremmo continuare ancora… ma possibile che nessuno abbia letto i copioni della fiction pur avendo autorizzato le riprese nel carcere?
Come già detto, ciò risulta lesivo, ancor prima che delle Istituzioni, dell’immagine di un Corpo di Polizia, quello della Polizia Penitenziaria appunto, che – a volte anche a costo della vita – affronta quotidianamente sacrifici e turni di servizio massacranti pur di assicurare un servizio al Paese nella dura e difficile realtà delle carceri del Paese.
Gli appartenenti al Corpo vengono formati prima dell’entrata in servizio e, durante l’espletamento dello stesso, posseggono qualità e competenze necessarie al delicato compito cui vengono chiamati, non meritano, dunque, di essere offesi e mostrati quali burattini che non si accorgono di nulla o che, se anche vedono quanto succede nelle sezioni detentive, soccombono alle logiche di prepotenza e violenza dei criminali ivi ristretti.
Appaiono, pertanto, indispensabili ed immediati interventi a tutela delle donne e degli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria per porre termine ad una situazione reiterata che mortifica, umilia e offende un Corpo di Polizia dello Stato, atteso che chi dovrebbe occuparsi della tutela del Corpo in termini di comunicazione istituzionale non ha evidentemente compreso il compito che dovrebbe svolgere.