Il Mediterraneo: chiavistello di processi politici, religiosi ed etnici. Dall”Adriatico al nord Africa

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AgenPress. In una geografia di civiltà intrecciate i modelli culturali di appartenenza svolgono un ruolo necessario nella definizione di quelle eredità storiche che interpretano memoria e radici di un popolo. Lo snodo di una tale lettura non ha soltanto una rilevanza religiosa (basata sulle fedi e sui riti), ma è espressione di una centralità etnica in uno sviluppo tra presenze minoritarie ed affermazioni politiche.

Il quadro che è andato profilandosi sia nei Balcani che nella fascia nord africana pone delle sottolineature. Ma  cosa è l’etnicità per una comunità di minoranza linguistica? È solo antropologia, è solo storia, è solo radicamento ad una eredità ad una tradizione, ad una identità? È lingua, linguaggio, vocabolario della parola? Certamente sì, e resta fondamentale questo elemento, perché senza un “vocabolario” la parola diventa sempre più un taglio dentro l’appartenenza.

L’appartenenza è civiltà, è popolo, è attraversamento di frontiere. Gli Arberesh sono stati sempre una “frontiera” nella dimensione geografica e nella certezza storica tra due mondi che si attraggono: quello dei Balcani e quello Mediterraneo. Soprattutto in un contesto di geo – politica le etnie costituiscono una chiave di lettura per “catturare” l’anima di una civiltà.

Gli Arberesh sono una civiltà dentro il contesto balcanico – mediterraneo e si portano dentro non solo gli archetipi di una griglia simbolica illirica ma anche profondamente radicata in una visione che è sostanzialmente antropologica ma che diventa (è diventata nel corso delle epoche) metafisica.

Bisogna che la lingua penetri l’antropologia e resti non metafora di una storia ma ontologia dell’anima di un popolo. Il “vocabolario” è chiaramente costituito da sillabe, vocali, ritmi, accenti, ovvero di parole, ma questo “vocabolario” del linguaggio parlato e ascoltato ha la sintesi di un ulteriore processo linguistico che è quello di una semantica marcatamente spirituale.

I Popoli cosiddetti “tagliati” (una volta si parlava di lingua tagliata, ma tanto tempo, ovvero quando c’era una volto una diversa attrazione …) sono quelli che rischiano di perdersi nella sconfitta di una lingua sia parlata che scritta. Si salvano se si affida alla lingua sia l’importanza di una semantica del sentire il senso di appartenenza sia nell’ascoltare il vocabolario che è trasmissione, ovvero comunicazione di linguaggi, che offrono sia un immaginario sia un legame tra le “scorie” di una “ideologia” dell’identità sia di un sentire vero  di appartenere alla tradizione.

Certo, questo nostro tempo vive la fragilità del tramandare la tradizione. Non si può “giocare” sulla antropologia di un rimando al folclore. O si è dentro una eredità che riesce a trasformarsi in una appartenenza vera non solo in termini di capacità di recepire la memoria o le memorie grazie ad una intelaiatura tra lingua e letteratura, contesto territoriale e modelli artistici, tra riti religiosi e recupero di tradizioni pur nella laicità o si corre il rischio di perdersi.

È chiaro, comunque, che la lingua deve assumere l’importanza centrale accanto al rito che è quello chiaramente bizantino. Gli Arberesh si smarriscono dentro la religione meramente cattolici – latina. Perdono le linee di una eredità. Sono bizantini, sono ortodossi, sono orientali dentro l’Occidente. Questo è un punto focale di una discussione che possa abbracciare i due riferimenti: lingua e antropologia. Ma lingua è quella Arbereshe e il rito non è quello latino. Bisogna capirsi altrimenti si diventa “meticciati” senza un riferimento identitario.

È certo che dall’essere soltanto balani e adriatici dal punto di vista sia geografico che culturale oggi si è complessivamente mediterraneo. Perché il Mediterraneo non è soltanto un arco o un semi-cerchio di mare che lambisce coste e Paesi.

Il Mediterraneo è un sentire ma è anche un accogliere popoli e civiltà tra mare e terra in una vasta realtà storica che va dalla Macedonia all’Albania, dalla Grecia alle sponde iberiche. Non è un appunto sul cerchio del globo. Si tratta piuttosto di una misura di culture inclusive. Il mondo Arberesh è un mondo inclusivo che tocca chiaramente la matrice ereditaria che è l’Albania (o i Balani in senso più ampio) ma è anche il Nord Africa, se si pensa alle comunità Arbershe della Sicilia. La Sicilia è Mediterraneo africano. La Puglia, con le sue comunità, è incontro con l’Albania e i Balani.

Insomma questo Mediterraneo diffuso non è altro da sé della storia e della cultura adriatica. Ecco perché nella modernità del quadro geo – politico ciò che si difende è la lingua. Le antropologie si intrecciano e le tradizioni misurano il senso della storia e la mitologia nella leggenda.

Solo la lingua porta dentro di sé una vera capacità di radicamento alle radici di un popolo, nonostante l’intreccio o la dilatazione “dialettica” con altre lingue. Occorre difende il principio di una koinè originaria. La lingua è quella del popolo – civiltà degli Arbereshe. Non è quella del popolo albanese.

È chiaro che la partita della globalizzazione per gli arbereshe non si disputa intorno alle lingue moderne soltanto. Bisogna capire che ormai non si è solo eredi di una civiltà balzana.

Bisogna prendere atto che il Mediterraneo è una civiltà molto più complessa dentro la quale il vocabolario e l’identità Arbereshe possono avere un ruolo di straordinaria rilevanza. È mondo  lirico, albanese e arabo nell’intreccio di radicamenti e di eredità che includono.

In fondo, il Mediterraneo è un crogiuolo di civiltà includenti. Lo è stato nella disputa tra Oriente ed Occidente nell’Impero Romano. Lo è stato dopo la caduta di Roma. Lo è stato nel Medioevo. Lo è stato nella temperie rinascimentale (in Italia si è posta la questione anche con Machiavelli). Lo è stato nelle fasi post illuministe e risorgimentali. Lo è stato nel primo conflitto mondiale. Lo è stato nel secondo conflitto mondiale con l’impresa anglo americana in Africa contrapposta a quella fascista italiana. Lo è stato nella guerra fredda. Lo è stato nel contesto della crisi petrolifera degli anni Settanta. Lo è tuttora, soprattutto dopo la caduta di Gheddafi.

Il Mediterraneo resta il centro che “spacca” sempre più le divisioni politiche ed etniche di civiltà nate non solo sulle sue sponde ma anche nei rapporti tra nord Europa e gli Oceani. Il punto del discutere è politico ed economico ma è sostanzialmente etnico – religioso.

Dalla Libia all’Egitto si sono aperte delle falde di notevole strazio socio – culturale – economico certamente, ma sono ben radicate in una contestualizzazione religiosa ed etnica. In una tale visione le contraddizioni economiche e religiose sono la chiave di lettura di una etnicità moderna che non dimentica i processi storici che hanno definito la fascia del Mediterraneo stesso.

di Pierfranco Bruni

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