AgenPress. Cosa resta di Gabriele D’Annunzio a 160 anni dalla nascita (anniversario importante per il 2023)? Io direi cosa non è rimasto! Ha rivoluzionato le arti e la letteratura oltre che i costumi e il modo di approccio ai linguaggi ma anche ai modelli politici pre Fiume e dal 1921 in poi. Certo, la sua poesia rompe gli steccati del tardo Ottocento ed è già verso moderno. La sua narrativa è il tragico che diventa inquieta bellezza nella malinconia ferita dei personaggi. Da Sperelli a quell’io narrante delle pagine del “Notturno”.
D’Annunzio resta il Novecento, o meglio inventa un Novecento delle arti che raccontano la modernità. La sua filosofia non sta nei piaceri ma nella conoscenza delle sensualità tra emozioni, percezioni, sentimenti. Il suo incontro con Eleonora Duse è “fatale”. È teatro nella vita oltre ogni altra donna ogni altro amore. È il fuoco nella pioggia che cade nel Pineto e scandisce il tempo nelle metafore del notturno.
Certo, è la recita ma è anche la vita che lascia il palcoscenico tra la scena esistenziale e la ribalta. È il Novecento. Senza di lui il Novecento tra culture e politiche non sarebbe stato quello che è stato anche tra Futurismo e avanguardie. La drammaturgia in teatro ha pervaso la grecità profonda in una profonda classicità che dai Greci giunge sino a Dante.
Sono passati anni dalla prima messa in scena al Teatro Costanzi di Roma con la Duse nelle vesti del personaggio del V Canto dell’Inferno di Dante. Il teatro è anche nel romanzo. Dante e D’Annunzio per una Francesca da Rimini portata in teatro da una splendida Eleonora Duse. Eleonora si abita nel suo destino il tragico del canzoniere che sembra recitare la Laura di Petrarca nelle vesti di Francesca da Rimini. Francesca sarà nel suo viaggio e nella teatralità di amante dolorante. Penetra profondamente il personaggio dantesco riportato sulla scena dal suo Gabriele.
La Francesca da Rimini sarà una interpretazione affascinante ma anche con velature mistiche. Cerca, in Francesca, il proprio volto. La propria lacerazione si trasferisce sulla scena. Vede in Paolo il suo amante Gabriele. Recita come sul teatro ci fossero solo due personaggi. 1901. Gabriele la dedica completamente alla sua Eleonora.
È il 9 dicembre al Teatro Costanzi di Roma. D’Annunzio vede in Eleonora l’impasto tra Beatrice, Francesca ed Eloisa. Una sensualità allo specchio nel quale la Divina riflette non solo la sua fisicità ma sente soprattutto anche il tremore dell’anima. È come se si ripetessero le antiche frasi che dicono:
Lei: “Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché ho amato”.
Lui, alla notizia della morte di lei: “E’ morta quella che non meritai”.
Un amore tutto carnale. La cui sensualità esplode in un lanciare di sguardi e di passione che Eleonora riesce a manifestare con una sorprendente e straordinaria interpretazione. Una superba interpretazione per una Divina che manifesta in teatro, direi pubblicamente, tutto il suo amore per Gabriele, che diventa Paolo. Una completa trasfigurazione in un immaginario che è manifestazione di una reale passione.
D’Annunzio diventa, così, Paolo e nel cuore di lei il fuoco divampa e si fa fiamma. Un trionfo e una morte in una Roma che ricorda quel V Canto di Dante in un infernale e invernale stagione in cui il tempo e la storia si intrecciano per tutta la città che sembra abbuiata dalle luci spente di una notte senza stelle e con un filo di falce di luna. La tragedia è composta in cinque atti in versi. Riccardo Zandonai successivamente la musicò nel 1914. A Torino si svolse la prima ed ebbe come ribalta il Teatro Regio. La Francesca da Rimini segna il vero teatro della (di) poesia.
Paolo e Francesca: “Dammi la bocca. Ancora! Ancora! Ancora!”.
Siamo al colmo di una indefinibile passione. Prende il sopravvento su tutto. Come nel Canto di Dante anche in D’Annunzio l’amore non è più soltanto emozione. È oltre. Il fuoco immenso. Il fuoco che accende tutto e si aggrappa ad una carnalità morbosa.
Paolo:
“Francesca, io piango; io de’ mortali
Sono il più sventurato! Anche la pace
De’ lari miei non m’è concessa. Il core
Assai non era lacerato? assai
Non era il perder…. l’adorata donna?
Anche il fratello, anche la patria io perdo!”.
Francesca:
“Cagion mai non sarò ch’un fratel l’altro
Debba fuggir. Partir vogl’io; tu resta.
Uopo ha Lanciotto d’un amico”.
Paolo:
“Francesca,
Se tu m’abborri che mi cale? e il chiedi?
E l’odio tuo la mia vita non turba?
E questi tuoi detti funesti?… — Bella
Come un angel, che Dio crea nel più ardente
Suo trasporto d’amor…. cara ad ognuno….
Sposa felice… e osi parlar di morte?
A me s’aspetta, che per vani onori
Fui strascinato da mia patria lunge,
E perdei…. — Lasso! un genitor perdei.
Riabbracciarlo ognor sperava. Ei fatto
Non m’avrebbe infelice, ove il mio cuore
Discoperto gli avessi…. e colei data
M’avria…. colei, che per sempre ho perduta”.
Francesca:
“Cho vuoi tu dir? Della tua donna parli….
E senza lei si misero tu vivi?
Sì prepotente è nel tuo petto amore?
Unica fiamma esser non dee nel petto
Di valoroso cavaliero; amore.
Caro gli è il brando e la sua fama; egregi
Affetti son. Tu seguili; non fia
Che t’avvilisca amor”.
Ma questo è il grande amore inteso non solo di Paolo e Francesca, bensì di Gabriele e Eleonora. Si amarono con la tenerezza selvaggia e con la immensità fragile di un Dante e Beatrice. Un amore in versi che diventa un canto tra i Cantici del sublime e inebriante virgulto di un vento violento tra le imposte sul mare della Versilia e tra le strade di Toscana e di Roma.
Cosa resterà allora? Non un ricordo. La trasparenza del velo che cade dal capo nel momento in cui Gabriele sente l’ora dell’immortalità. Il tempo di D’Annunzio non finisce perché è nel profondo delle civiltà che non trasferiscono e non trascrivono. Rappresentano come arte e si fanno arte. Il linguaggio anzi i linguaggi diventano definizioni di una innovazione non solo sul piano critico. Ma su quello delle umane lettere.
Qui umane lettere e civiltà dell’umanesimo sono un attraversamento, inteso come ho cercato di sottolineare nei tanti libri scritti e pubblicati su D’Annunzio, su Eleonora Duse e tra D’Annunzio e Dante, il tragico nella bellezza.
Pierfranco Bruni