AgenPress. Palamara, che cosa ci dice dell’incontro notturno con Zingaretti per parlare di Venafro e dell’inchiesta Mafia capitale?
«Posso confermarle che in quella occasione l’incontro aveva a oggetto le dimissioni di Venafro, ma, come ho già detto, parlerò di questi fatti davanti all’autorità giudiziaria»
Lei consigliò quelle dimissioni a Zingaretti?
«Più che consigliarle, mi sembravano a quel punto inevitabili» .
Prima di dare quel suggerimento si era consultato con l’allora procuratore Giuseppe Pignatone o con qualcun altro?
«Diciamo che ne avevo parlato in Procura».
Lei aveva visto il governatore del Lazio pochi giorni prima al Csm. L’argomento era lo stesso?
«Sì. L’inchiesta Mafia capitale, che coinvolgeva anche alcuni dem, aveva creato fibrillazione nei rapporti tra una parte del Pd, quella che comandava, e i vertici della Procura di Roma. E io ho avuto modo di discutere di questi aspetti sia con il presidente Zingaretti sia con Pignatone anche nei giorni precedenti alla partecipazione di quest’ultimo a una conferenza del Pd».
Fece lei da trait d’union per quel discusso intervento, tenuto poche ore prima dell ’esplosione di un’inchiesta che vedeva indagati anche uomini del Pd?
«In quel caso l’invito fu rivolto direttamente a Pignatone da qualcuno del partito di Roma. Io rimasi colpito da quella partecipazione visto che il procuratore era restio a prendere parte a eventi pubblici di questo tipo a cui era più facile trovare esponenti della sinistra giudiziaria adusi ad esporsi».
Era un segnale da mandare all’esterno a favore del partito che stava per finire nella bufera?
«Io lo percepii in quel modo».
Un’inchiesta della Procura di Perugia ha costretto alle dimissioni l’ex presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini. Anche in quel caso sembra ci siano state pressioni di Zingaretti e del tesoriere Walter Verini. La sorprende?
«Normalmente i meccanismi del Sistema sono piuttosto simili. Arriva un uccellino che ti consiglia su come muoverti. Però direi: occhio, perché c’è sempre in agguato un cecchino che può colpirti alle spalle».
Vuol dire che non si può mai essere sicuri sino fondo dei rapporti costruiti con il mondo giudiziario?
«Se si porta la magistratura in un campo di contrapposizione politica tutti rischiano, nessuno escluso».
Che cos’altro ci può dire dei legami tra Pd e Procure? Quando sono cominciati?
«Ricordo che all’inizio della mia esperienza come Presidente dell’Anm partecipai a un convegno organizzato dal Partito democratico di cui era segretario Walter Veltroni in via di Ripetta a Roma. Nel comitato organizzatore formato da parlamentari del Pd c’erano più magistrati che pubblico in aula. Ricordo un Veltroni visibilmente imbarazzato. Questa costanza di rapporti si riflette inevitabilmente sulle indagini. Matteo Renzi ha spiegato bene questo cortocircuito nel libro Il m o st ro a proposito della gestione politica dell’inchiesta Expo con Beppe Sala sindaco di Milano. È stata una vicenda emblematica di come nel capoluogo lombardo e anche a Roma procuratori di peso come Edmondo Bruti Liberati o Pignatone gestissero l’azione penale anche politicamente » .
Lei è testimone degli incontri di Pignatone con Matteo Renzi e l’ex sottosegretario Luca Lotti alla vigilia dell’inchiesta Consip e di come sia stata gestita, in seguito, quella situazione…
«Sì, ho vissuto direttamente quella stagione sia per quanto riguarda le indagini giudiziarie, sia per quanto riguarda le notizie che vennero pubblicate in prima battuta da alcuni organi di informazione».
A che «scoop» si riferisce?
«I due grandi giornali che criticavano l’operato del pm Henry John Woodcock e dei carabinieri del Noe guidati dal colonnello Sergio De Caprio e dal capitano Giampaolo Scafarto chiesero il verbale dell’audizione della procuratrice Lucia Musti, molto critica con i militari» .
La procuratrice li descriveva, almeno così scrissero giornali, come in caccia di Renzi. E lei diede loro quel documento riservato?
«Venne pubblicato il giorno dopo. Non aggiungo altro » .
Sta raccontando per la prima volta, con un esempio concreto, come funzioni il rapporto tra i vertici delle Procure e i giornaloni sempre pronti ad attaccare i leader di destra e a difendere quelli di sinistra.
«È per questo che voglio dare il mio contributo in politica. Io sono anche testimone di un incontro sulla terrazza dell’hotel Bernini di Roma in concomitanza con l’inchiesta Mafia capitale in cui l’allora neonominato direttore del C o r rie re della Sera Luciano Fontana incontrò Pignatone, l’aggiunto Michele Prestipino e il sottoscritto. Quel pranzo fu organizzato da Sergio Crippa, manager di Italcementi e durante l’incontro vennero illustrati ai giornalisti gli sviluppi dell’indagine».
Ha vissuto in prima linea il periodo del renzismo…
«Mi ricordo più di una cena con Pignatone e Lotti. L’ex sottosegretario non era ancora indagato per Consip. Quegli incontri servivano a creare un clima di collaborazione tra Palazzo Chigi e la Procura di Roma».
Ma poi Lotti è stato iscritto sul registro degli indagati: perché lei in un’intercettazione si lamenta di essere rimasto con il cerino in mano?
«Perché negli appuntamenti conviviali si era creata una fiducia che poi è stata tradita con la richiesta di rinvio a giudizio. Se io avessi capito la piega che stava prendendo l’inchiesta Consip avrei certamente evitato di far incontrare Pignatone con Lotti o con il piddino Giovanni Legnini, che nel suo ruolo istituzionale di vicepresidente del Csm, era interessato a comprendere quanto accadeva nella Procura di Roma. A Pignatone, con il quale ho sempre avuto un rapporto di stima, indubbiamente deve essere riconosciuta una spiccata capacità di interlocuzione anche politica che abilmente ha messo in campo durante la sua esperienza romana. Ma ci sono state delle indagini che hanno creato grande imbarazzo all’interno dell’ufficio » .
Torniamo alle cene…
«Certamente in tali serate si affrontavano tematiche molto sentite in ambito politico e giudiziario».
Per esempio?
«Si discutevano questioni come l’età pensionabile dei magistrati che è la grande merce di scambio tra giudici e politici».
Che cosa intende?
«Che normalmente quando si arriva all’età pensionabile a nessuno piace lasciare il proprio posto e le strade sono due: o ottenere una proroga e rimanere in servizio oppure ottenere un incarico politico».
Mi fa un esempio?
«Quello che è accaduto con gli ultimi procuratori Antimafia che sono andati in pensione. Sembra quasi che quella carica abbia inglobato anche un futuro in politica, quasi sempre nel Pd » .
Come fa la magistratura a entrare nella stanza dei bottoni della politica?
«Lo fa sia nel momento delle candidature che quando vengono formate le strutture ministeriali. La gag del ministro Alfonso Bonafede che propone un posto al Dap a Nino Di Matteo e poi ci ripensa è emblematica. Esemplare è anche il caso di Giovanni Melillo, valoroso magistrato della Procura di Napoli, oggi a capo della Dna: venne chiamato al ministero della Giustizia a fare da capo di gabinetto del Guardasigilli Andrea Orlando, che era stato commissario del Pd a Napoli».
In questi giorni si leggono nomi di magistrati che andranno in Parlamento, come il procuratore uscente dell’Antimafia Federico Cafiero de Raho. Con lui condivise una discussa chat…
«Sono contento che persino tra i 5 stelle finalmente abbiano compreso il bluff di quelle conversazioni che evidentemente non intralciano più le carriere, dopo che al Csm sono state utilizzate solo per colpire alcuni».
De Raho la attese per due ore con la scorta in piazza Esedra. Di che cosa dovevate discutere?
«In quel periodo era in ballo un incarico a presidente di sezione al Tribunale di Napoli per cui era in corsa la moglie».
In una cena parlaste anche del ruolo di Di Matteo dentro alla Dna?
«In quel momento Di Matteo era considerato ingombrante perché poteva oscurare il ruolo di De Raho. Non voglio pensare che i grillini abbiano rinnegato con questa candidatura Di Matteo, nei confronti del quale, a iniziare da me, c’è stato un pregiudizio che lui, con il suo ottimo lavoro al Csm, devo ammetterlo, ha smentito».
E di Roberto Scarpinato che cosa ci dice?
«Mi farebbe piacere che chiarisse la storia della documentazione trovata a casa di Antonello Montante (l’ex paladino dell’Antimafia condannato dalla Corte di appello di Caltanissetta ad otto anni per corruzione e associazione per delinquere, n d r), al quale all’epoca moltissimi magistrati, compreso lui, si rivolgevano per fare carriera».
In corsa c’è anche Carlo Nordio.
«È sempre stato attaccato dalla sinistra giudiziaria, ma è uno di quei magistrati che oggi devo riconoscere, più di tanti altri, è titolato a parlare non avendo mai fatto parte del sistema di spartizione correntizia e non ha mai fatto il questuante per questa o quella nomina».
E lei resterà al palo o verrà candidato? I partiti sembrano avere dubbi sul suo nome perché è imputato a Perugia…
«Oggi ho ritirato il certificato del casellario giudiziale e c’è scritto “nulla”. Questa è la mia risposta a chi mi sta inserendo negli elenchi degli impresentabili sui giornali e poi fa scrivere magistrati sottoposti a procedimento penale come Piercamillo Davigo. In tutte le liste ci sono degli imputati, anche perché ormai tutti i partiti si professano garantisti, ma l’unico per cui non vale questo principio rischio di essere io sebbene non abbia neppure una condanna in primo grado».