AgenPress – Una sentenza del Consiglio di garanzia di Camera e Senato è destinata non solo a far giurisprudenza ma anche a far parecchio discutere.
Clamorose sentenze degli organi interni del Palazzo svelate da Francesco Verderami sul Corriere della Sera.
Nell’articolo di Verderami, infatti, si legge che “ai parlamentari uscenti che volessero farne richiesta basterebbe presentare un ricorso all’Amministrazione e chiedere di integrare i mesi mancanti dall’atto di proclamazione delle future Camere al settembre 2022. I più interessati sono ovviamente i parlamentari di prima nomina.
Le regole del Parlamento, infatti, prevedono che per maturare il diritto alla pensione minima (equiparata dal 2012 in tutto e per tutto a quelle di qualsiasi dipendente pubblico, età e sistema contributivo inclusi) si debbano compiere almeno “4 anni, 6 mesi e 1 giorno” di servizio alla Camera o al Senato. Fin quando quel momento della legislatura non sarà raggiunto, si diceva, i parlamentari di prima nomina si opporranno con il proprio corpo a qualunque ipotesi di scioglimento.
Ipiù accaniti difensori di questi aggiustamenti sono coloro che, fino al terno al lotto che li ha portati in Parlamento, tuonavano fiumi di improperi contro la presunta caste e vitalizio, che non esiste più da 10 anni. Del resto M5s ha il 70% di eletti di prima nomina.
Il verdetto depositato a Palazzo Madama risale al novembre 2020.
In quella occasione il Consiglio di garanzia aveva risposto ad un ricorso di tre ex senatori che non avevano raggiunto i “quattro anni sei mesi e un giorno”, e ai quali “in nome del popolo italiano” era stato infine riconosciuto il diritto alla pensione. A una condizione però: che pagassero tutti i contributi dei mesi mancanti, quelli a loro carico e anche quelli a carico dell’amministrazione, in modo che l’operazione fosse “a costo zero” per le casse dello Stato. La sentenza del Senato intendeva sanare la “difformità di trattamento” rispetto ai parlamentari europei e rispetto anche ai deputati della Camera.
Il giudizio del Consiglio di giurisdizione di Montecitorio è dell’ottobre 2019.
Allora il collegio guidato dal democratico Alberto Losacco aveva messo in mora i regolamenti sul sistema previdenziale, accogliendo il ricorso di dieci ex deputati che erano subentrati ad altri parlamentari nel corso della legislatura e che non avevano potuto maturare la pensione, pur pagando i contributi.
Il Parlamento – si legge sul Corriere della Sera – riconoscerà a deputati e senatori il diritto a ottenere la pensione anche nel caso in cui la legislatura dovesse terminare prima dei fatidici “quattro anni sei mesi e un giorno”, che è il limite fissato oggi dai regolamenti interni per riscattare la previdenza. Questi verdetti potrebbero avere anche un impatto politico, visto che nel Palazzo l’eventuale ritorno alle urne l’anno prossimo viene vissuto con grande preoccupazione soprattutto per chi è al primo mandato.
Temono di perdere la pensione. In realtà, secondo quanto riferiscono fonti qualificate, le Amministrazioni dei due rami del Parlamento si stavano già preparando riservatamente per adeguarsi alla novità.
Che poi una novità non è. In quanto almeno per gli uffici, se è vero che il verdetto depositato a Palazzo Madama dal collegio presieduto dal forzista Luigi Vitali è del novembre 2020”. Fu in quella occasione che il Consiglio di garanzia aveva risposto ad un ricorso di tre ex senatori che non avevano raggiunto i fatidici «quattro anni sei mesi e un giorno» per far scattare il meccanismo previdenziale. A loro “in nome del popolo italiano» era stato infine riconosciuto il diritto alla pensione. A una condizione però: che pagassero tutti i contributi dei mesi mancanti”.
La svolta – prosegue il Corriere – è dettata da due sentenze, emesse dal Consiglio di giurisdizione di Montecitorio e dal Consiglio di garanzia di Palazzo Madama: si tratta di organismi che agiscono in regime di autodichia e che, alla stregua di tribunali, regolano autonomamente i conflitti tra le Camere e i parlamentari.