AgenPress. L’italianità, in fondo, è consapevolezza storica (Dante lo sottolinea, Manzoni lo testimonia e D’Annunzio canta: “Italia, Italia, sacra alla nuova aurora, con l’aratro e la prora!) che si fa sentimento. Ci allontana dalla desertificazione perché si raccoglie nel sentire delle civiltà.
Questo senso dell’italianità nella letteratura non è solo un sentiero tematico in quella dimensione del romantico ma diventa linguaggio, espressione, essenza di una partecipazione.
La poesia di Dante è dentro la memoria dell’attualismo. Ovvero, non è moderno, ma resta in ogni epoca contemporaneo. La sua contemporaneità, soprattutto nel Novecento, è diventata necessaria come pensò sempre Giovanni Papini che a Dante ha dedicato diversi studi. Come sottolineò Giuseppe Ungaretti che comprese il viaggio di Virgilio – Enea, in una “terra promessa”, viaggiando nella Commedia.
Anche Lawrence Monsanto Ferlinghetti deve molto a Dante. Attraversa una linea che diventa interlinea tra ricerca, tradizione e innovazione. Si confrontò costantemente con Dante.
Ha contribuito a rivoluzionare il linguaggio poetico restituendo alla parola la forza innovativa della ricerca leggendo l’importante del “De Vulare”. La sperimentazione per Ferlinghetti significava penetrare il senso della tradizione linguistica, a partire da Dante, e rinnovarlo con un vocabolario della lingua tra quotidiano e percezioni.
Dante è stato un esempio importante perché ha analizzato il verso e la prosa della “Vita Nova” contestualizzando la rima di Dante nella speculazione lirica. In fondo Ferlinghetti è il poeta che ha dato la voce al verseggiare tra musica e canto.
Alcune poesie inedite di Ferlinghetti vengono pubblicati con il titolo: “Non come Dante” per Minimum Fax nel 1996 e raccoglie testi dal 1990 al 1996 con una splendida traduzione di Lucia Cucciarelli. Versi nei quali, con una puntale e pungente ironia, recitano:
“Non come Dante
che scopre una commedia
su per le falde del regno dei cieli
io dipingerei un diverso Paradiso
in cui la gente sarebbe nuda
com’ è sempre
in scene del genere
perchè vuol essere un ritratto delle anime
ma senza angeli apprensivi a dir loro
di come il regno dei cieli sia
il ritratto perfetto di una monarchia
e senza roghi che divampano
nelle fosse infernali giù di sotto
in cui può darsi che io abbia messo piede
e nemmeno altari nel firmamento se non fontane di fantasia”.
Dipingerebbe un Paradiso diverso. La Canzone di Dante viene proiettata nei processi che si leggono in Ginsberg e nella modernità della metafora colloquiale che giunge sino alla fine degli anni Sessanta del Novecento. Ma trasforma la parola per renderla percezione della intuizione. Egli stesso poeta ma è soprattutto il poeta che intuisce la necessità dei nuovi poeti e dei cantori.
Proprio in riferimento al rapporto tra Dante e Ferlinghetti, Lucia Cucciarelli, traduttrice del volume, ha chiosato: “Non come Dante, è vero, ma come Dante Ferlinghetti ha attraversato la cultura di questo secolo, incontrandone fisicamente e idealmente gli epigoni letterari e artistici. Come Dante, Ferlinghetti è stato un outsider, un artista super partes, editore di sé e scopritore di talenti, traduttore, ispiratore di avvenimenti culturali. Un vero e proprio leader spirituale seguito da milioni di persone che, negli anni cinquanta, giravano con Coney Island Of My Mind in tasca, una specie di parola chiave di una generazione che usciva dalla guerra ed entrava negli ingranaggi della civiltà industrializzata con la testa ancora piena di illusioni”. Ottima osservazione che offre una chiave di lettura innovativa ion un rapporto confronto tra la tra tradizione di Dante e il modello del canto pop – generation che trova il suo incipit proprio in Ferlinghetti.
La sua casa editrice propone autori e metafore di testi che hanno la dimensione di un onirico sostegno alla semantica dei segni. La poeta è fatta di segni che costituiscono, appunto, il linguaggio della semantica metaforizza.
Ferlinghetti vive in questi versi proprio il senso nell’onirico: “…di questa sorprendente vita quaggiù/e degli strani clown che la controllano…”. Il clown è una metafora del reale che insiste nel poeta della spazialità infinita. In questa spazialità la parola cerca la vita nuova come desiderio, come necessità, come sistemazione del tempo delle parole
Un gioco che Dante adottò per le rime e che Ferlinghetti stimola e rimodula come proposta di avanguardia tra una proposta in cui la beat generazione ha trasformato in un pop linguistico sul ritmo della tavola della musicalità immediata. Una ricerca comparativa tra parola e pittura.
Un esercizio fondamentale che ha fatto di Ferlinghetti il primo innovatore. In fondo intrecciò la pittura e la parola. Usò l’immagine come immaginario soffuso e sommesso: “…poggiò la tela a terra/E giacque solo con lei/E a lungo giacque con quella vergine/desiderando una purezza tutta per sé”.
L’immaginario diventa simbolo. Un archetipo che ha sempre legato “Poesie. Questi sono i miei fiumi. Antologia personale 1955/1993” (Newton Compton, 1996) alle “Rime” di Dante. Una interlinea che vale una poesia, un poeta, un poeta e pittore. Dante è stato un riferimento ma anche una contraddizione. Qui i limiti. Non seppe andare oltre.
Ferlighetti è nato il 24 marzo del 1919 a Bronxville, New York, Stati Uniti e morto il 22 febbraio del 2021. La domanda resta. Innovò. Innovò come Dante? Non credo. Però come giustamente ha scritto Lucia Cucciarelli: “. Come Dante, Ferlinghetti è stato un outsider, un artista super partes”. In fondo cosa è la poesia per Ferlinghetti? “Balzo di cavalli bradi/che incidono la terra scalpitando”.
Ma è Giovanni Papini che intorno al 1905 apre una potente polemica sulla questione Dante. In modo particolare quando scrive il suo saggio “Per Dante e contro il dantismo”, nel quale restituisce a Dante la magia della parola oltre la accademia dei linguaggi. Tutto il Novecento, comunque, è stato un secolo che ha dibattuto su Dante e con Dante. Ripenso spesso alla centralità di Dante in Quasimodo o ancora Ungaretti, il quale, tra le pagine dedicate a Dante, scrisse in “Letture dantesche”, a cura di Giovanni Getto, vol. I, Inferno, Sansoni, Firenze 1964:
“Il primo effetto che fa la Divina Commedia, è, per l’ansia che la percorre dal primo all’ultimo verso, di stupenda inesorabilità. C’è Iddio da attestare innanzi tutto: non un feticcio; ma il sommo intelletto cui, dall’eterno, è presente l’Uomo, cioè un universo in ordine, un universo giudicato. Misurati da quella sommità, gli eroismi umani, le abiezioni umane, tutti gli atti umani appaiono collocati per sempre ciascuno nella sua realtà vera al giusto grado. Non conosco, né credo si conosca, nella letteratura delle genti europee, dopo il Gorgia platonico, rappresentazione della giustizia frutto d’un sapere più preciso e vasto e mossa da una fede più poetica, più coraggiosa e, direi, più fanatica. Si tratta della giustizia attiva dalla quale unicamente, avendone chiara coscienza e contemplandone i segni, ha scaturigine la musica spirituale che sale verso la sua suprema liberazione e purezza.
“Il non essere in possesso d’una siffatta coscienza, sarebbe ritenere che, nelle sue misure, la giustizia possa essere priva di giustizia. E voglio dire che sarebbe priva di giustizia, la nostra giustizia, la giustizia di noi all’opera nello spazio e nel tempo, se, dalla confusione, dall’agitazione, dal travaglio, dal dramma, dalla « selva oscura » della nostra vita carnale e della nostra vita storica non sapessimo, non desiderassimo e almeno non tentassimo di trasferire i nostri atti nell’assoluto cercando in qualche modo di vederli come appariranno nudati, valutati e classificati da un arbitro infallibile, al compimento dei secoli, in una, finalmente possibile, generale e ultima sistemazione di ciascuna umana persona e di tutta l’umana storia.
In altri termini, la giustizia in assoluto sarebbe vano parto di delirio, se il millenario sentire e immaginare e speculare dei poeti e dei filosofi non l’avesse invocata per chiarire al sentimento, al pensiero o alla fantasia, intuitivamente o logicamente, la causa e il fine universali dell’uomo: la sua pura libertà e felicità – e se la speranza di giustizia non si scoprisse costante nell’attività morale dell’uomo: la tesa speranza anche a conseguimento terreno d’una sorte degli individui nelle società temporali, degna della persona umana”.
Ma tutta la poesia da Petrarca in poi è intrisa di Dante. In questo nostro tempo credo, con Papini, che sarebbe buono e giusto uscire dalle analisi del testo e entrare non nel dantismo, bensì in Dante. Una brevissima chiosa papiniana: “La dinastia degli spiriti danteschi è stata più breve: soltanto Michelangiolo ha saputo pareggiar l’Alighieri dipingendo nella Sistina l’unica illustrazione degna che abbia avuto la Divina Commedia”. Il resto è nel contesto culturale dei nostri giorni tra dialettica e provocazioni. La poesia di Dante è, appunto, memoria dell’attualismo che supera la modernità nel senso del recupero delle identità.
La patria lontana di Enrico Corradini è un messaggio che trasmette significati e valori e ci richiama appartenenza. Ippolito Nievo: “Le Confessioni di un Italiano” è il viaggio nel cuore del sentimento. Non si può essere cittadini del mondo senza prima essere memoria vivificante nel luogo dell’appartenenza. Ovvero nel luogo dove si è nati, dove si è stati, dove allegoricamente si ritorna.
Il sentimento di Nazione è anche nella centralità di una storia con la sua tradizione, con la sua identità, con l’affermazione di un concetto aprioristico che è nella difesa di quei valori della trasmissione che non ci fanno sentire estranei. L’estraneità porta a sentirci stranieri. Ma non è un concetto astratto. Si avverte quando non si ha o quando si perde il senso di comunità. Anche l’esilio di Dante è metafisica dell’estraneo.