A 70 anni dalla morte. Pavese un anticonformista scomodo alla cultura dominante ed egemone

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AgenPress. Cesare Pavese a 70 dalla morte. Tra la poesia e il cinema il suo essere scrittore ha sempre superato la vita. Quando la scrittura non è bastata più, la vita ha preso il sopravvento. Una vita il cui labirinto è diventato disperazione e superamento di ogni speranza.

Disperazione e speranza sono dentro l’incidere di una esistenza che era diventata profondamente pensiero e linguaggio. Può il linguaggio di uno scrittore sostituirsi ad un altro sé? Non ad un altro da sé. Bensì a quel sé che è coscienza, tremore e angoscia. Kiekegaard è un maestro sottile nella vita di Pavese. A volte invisibile, ma sempre ancorato alla sua consapevolezza che la vita è morire sulle macerie della memoria.

Pavese ha fatto della sua vita la nostalgia dell’aver troppo vissuto senza la vita vera. Una contraddizione di fondo che resta unica nel quadro del Novecento. In lui il realismo diventa antropologia metafisica. Le stesse macerie sono metafore metafisiche. La cultura greca è la dissolvenza degli dei e la prevalenza del logico. Nel momento in cui il logico incontra la ragione accade il cortocircuito. Il suo suicidio è lo scontro tra Titani in uno scendere muto nel gorgo di una volontà di potenza che si fa sempre al di là del bene e del male.

Non decadenza, ma convivenza con le rovine di una civiltà che è rappresentata dal diavolo che scappa sulle colline per cercare una casa che non trova. Trova però quella sua luna che illumina il falò. Un falò vero ma anche allegoria della ragione. In una tale allegoria fa da scenario costantemente la memori.

Quella memoria senza lancette e senza cifra del tempo. Nella morte il tempo si annulla come nella morte che avrà i suoi occhi. Una immensa distesa come il mare che diventa quarta parete dell’anima o le colline che restano scavo di radici e disperante ritorno.

Uno scrittore e un riferimento per la Cultura anticonformista. Non accettò mai gli schemi ideologici. Si contrappose alle ideologie delle sinistre e pose al centro della letteratura come vita sempre l’uomo.  Insegnò che anche i vinti, proprio perché tali, hanno la dignità della lealtà.

Bisogna prendere atto del sangue versato e mai dimenticare che sono nostri fratelli. Non tutti capirono ciò. Non tutti capiscono ciò. I libri scolastici che vengono adottati hanno trattato Pavese come uno scrittore minore. Manipolati ideologicamente. Uno scrittore che ha avuto il coraggio delle idee e non ha mai sposato la condizione codificata dal modello gramsciano e da intellettuali poco accorti.

Traduttore di Nietzsche e studioso di Vico ed Eliade. Resta un tradizionalista convinto e un fedele conservatore alle soglie del cristianesimo. Già, quel cristianesimo che gli è mancato, ovvero quella fede cercata e non diventata mistero ma sempre divagazione o penetrazione nel mito e del mito.

Tutto resta. Tutto si perde. Si consegna alla morte con i suoi dialoghi testimoniandosi fino in fondo nella elegia del bianco che è incarnato in Leucò. Solo in Leucò  rintracciò il suo mestiere di vivere che è stato sempre il mestiere di scrivere. Dietro le onde sparse di Melville o tra le foglie di Witman, Pavese non si è smarrito.

Si è perso. Perdersi e smarrirsi, in Pavese, non hanno lo stesso riferimento, ma non lo hanno mai. Si è perso perché perdendosi ha riconquistato quelle are che soltanto Calipso o Circe avrebbero potuto restituire. Ma si era sbagliato. Cesare non era Odisseo. Forse era diventato Tiresia. Ecco perché ha avuto bisogno del gorgo muto per non sfuggire completamente a quegli occhi che erano diventati lontananza.

 

 

 

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