Il carcere è una polveriera: ecco la testimonianza della Polizia Penitenziaria

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L’intervista forte e diretta a dott. Leo Beneducu, segretario generale dell’Organizzazione sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp)


AgenPress. “Gli agenti della polizia penitenziaria operano a mani nude e sono frequentemente aggrediti dai detenuti. Il carcere non solo non recupera, ma è una polveriera che rischia di esplodere”.

E’ la forte testimonianza rilasciata a In Terris dal dott. Leo Beneduci,  segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp). Una persona che – come i suoi colleghi – vive la prigione quotidianamente: una voce al di là delle sbarre come rappresentante dell’ordine in un contesto difficile spesso “inquinato” dalla criminalità organizzata che tende a fare Stato a sé anche nelle prigioni, fomentando rivolte – come accaduto lo scorso marzo in molti istituti carcerari italiani – e che sfrutta la promiscuità per reclutare nuove “leve” tra i giovani detenuti.

Quali sono al momento le carceri italiane con maggiori criticità?
“Non c’è un carcere senza nessuna criticità. Una delle situazioni peggiori sono state vissute lo scorso marzo in Puglia, nella casa circondariale di via delle Casermette a Foggia, con l’evasione di massa di oltre 70 detenuti. Lo stesso giorno, inoltre, dei reclusi hanno dato fuoco a dei settori del carcere milanese di San Vittore. Tafferugli erano scoppiate in contemporanea anche nelle carceri di Lecce, Brindisi, Taranto e Modena evidenziando una sorta di ‘regia occulta’ tra le varie realtà carcerarie italiane. Questo perché la criminalità organizzata tende a prendere in mano il carcere. In questi giorni, il caso è scoppiato a Santa Maria Capua Vetere dove i carabinieri hanno consegnato gli avvisi di garanzia davanti ai familiari dei detenuti in attesa dei colloqui, che – alla notizia – hanno festeggiato con tanto di botti sotto le mura carcerarie. Le altre carceri quasi al collasso sono tante: Firenze Solicciano a causa di una eccessiva promiscuità tra reclusi per piccoli reati e quelli appartenenti alla criminalità organizzata che avvicinano questi giovani, molti dei quali con problemi di tossicodipendenza, per reclutarli nel loro clan. Ma anche il carcere di Torino Le Vallette ha grossi problemi di sovraffollamento”.

Cosa intende per promiscuità tra i carcerati?
“Nelle carceri tutti i detenuti vanno recuperati. Ma ci sono detenuti recuperabili più di altri alla società. Non tutti i detenuti hanno lo stesso tipo di problema, provengono dallo stesso contesto sociale. Per esempio i 12mila detenuti attualmente in carcere legati alla criminalità organizzata – mafia, camorra, ndrangheta e così via – sono meno facilmente recuperabili perché la criminalità organizzata dà da vivere a loro e ai loro familiari anche mentre sono reclusi. Inoltre, influenzano il comportamento dei detenuti più deboli, perché soli, quali extracomunitari e tossicodipendenti. Ed è quello che è successo durante i disordini dello scorso marzo che hanno portato a 13 detenuti morti (quasi tutti per overdose), una cinquantina di agenti feriti, oltre 40 milioni di danni. Inoltre, la criminalità organizzata trova nelle carceri una facile manodopera e recluta i soggetti deboli per i propri loschi interessi, destinandoli così ad una vita fuori legge. Perciò non è esagerato dire che oggi si entra nelle carceri per un piccolo ‘furtarello’ ma se ne esce rapinatori”.

Le carceri possono trasformarsi una sorta di scuola del crimine?
“Sì, la cosiddetta Università del Carcere, non in senso positivo ovviamente ma come luogo di affiliazione delle nuove reclute alle organizzazioni criminali che promettono soldi facili e la possibilità di rimanere in Italia”.

Il carcere produce il reinserimento sociale dei detenuti, come richiesto dall’articolo 27 della Costituzione italiana che sancisce il principio del “finalismo rieducativo della pena”?
“Al momento decisamente no, eccetto in rare eccezioni. Questo perché i detenuti non lavorano: non c’è rapporto tra il mondo carcerario e la società fuori dalle sbarre. Ad oggi i detenuto che hanno un’occupazione sono solo il 15% del totale. Ma il lavoro rappresenterebbe il principale strumento di reinserimento sociale perché toglie potenziale manovalanza alla criminalità organizzata. Invece i detenuti una volta fuori dal carcere non hanno una reale alternativa, non hanno un lavoro che li aspetta: hanno il nulla e sono così facili prede della criminalità. Sono circa 600mila i detenuti che una volta usciti tornano a delinquere. Il carcere è dimenticato. C’è solo l’opera pietosa di tanti sacerdoti, volontari e associazioni che aiutano i carcerati nell’apprendimento e nel reinserimento, ma sono una goccia in un mare”.

Quali sono le mansioni della polizia penitenziaria?
“In carcere opera l’unico corpo di Polizia dello Stato che, oltre ad avere le funzioni tipiche della Polizia, ha anche quelle legate al reinserimento sociale. Ma di fatto la polizia penitenziaria l’unico compito che riesce a svolgere, e non sempre, è quello di custodire il detenuto. Questo perché gli agenti penitenziari sono senza strumenti, lavorano a mani nude e non in senso metaforico”.

Quali sono le soluzioni?
“E’ da riformare il sistema penitenziario. Principalmente, vanno creati percorsi differenziati. In carcere non è più possibile che vadano tutti: le persone che hanno commesso un reato vanno differenziate a seconda della tipologia di reato, della gravità e della recidiva. Ma anche del loro stato di salute: il carcere non è il luogo adatto per persone con dipendenze da sostanze stupefacenti, né per coloro che hanno problemi mentali, i cosiddetti ‘pazzi violenti’ che una volta venivano rinchiusi nei manicomi criminali. Le persone che non hanno commesso crimini gravi dovrebbero poter avere accesso a un percorso di recupero e reinserimento fuori dal carcere. Alcune associazioni si occupano proprio del reinserimento lavorativo dei detenuti con messe in prova all’esterno dell’edificio carcerario. Se continuiamo a rinchiudere le persone per ogni tipo di reato, rischiamo di trovarci con 68-70mila detenuti rinchiusi in carceri che al massimo possono contenerne realmente solo 45mila. E all’interno opera l’unico corpo di Polizia completamente abbandonato a se stesso da anni, sia dal punto di vista organizzativo, sia pratico: non abbiamo mezzi, non abbiamo neanche le uniformi…siamo a mani nude anche durante le frequenti aggressioni. Il carcere come è oggi è una polveriera che prima o poi rischia di esplodere”.

 

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