L’Italia guarda al Sahel: il complesso asse italo-francese per la stabilità del Nord Africa

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Le missioni internazionali italiane puntano alla fascia tra il Sahara e l’Africa Continentale. Una cooperazione strategica contro la minaccia jihadista e non solo… L’intervista di Interris.it a Alessandro Marrone, responsabile del Programma Difesa dello IAI


AgenPress. Una distesa di deserti e spoglie savane come essenziale polo geostrategico del dopo-coronavirus. Il Sahel si candida a esserlo in un’ottica altrettanto rilevante di quella sotto la quale si è finora inquadrato lo scenario libico. Una regione estesa, praticamente da costa a costa, appena sotto la fascia costiera del Nord Africa e rotta obbligata per chi, dall’area subsahariana del continente, punta all’approdo lungo la costa mediterranea. Porto di partenza dei migranti alla volta dell’Europa ma anche contesto di tensioni ancestrali le cui escalation, pressoché incontrollabili, rendono il dossier fra i più importanti nell’agenda geopolitica del Mediterraneo. Non solo Libia, ma soprattutto Libia. Un Paese in conflitto, internamente diviso, che l’emergenza Covid-19 ha via via svuotato del peso d’influenza italiano lasciando il posto ad attori extra-europei che, nell’ambito di una trattativa per il cessate il fuoco, rischiano di rendersi interpreti di un quadro nazionale ormai alla stregua di un mosaico troppo difforme per produrre un disegno coerente.

La lente italo-francese

A fronte di una Libia meno soggetta a influenze pacificatrici europee e supportata, nei due diversi schieramenti in lotta, dalle forze di Ankara e Mosca, lo sguardo delle missioni internazionali italiane sembra intenzionato a puntare leggermente più a sud, alle radici dell’Africa mediterranea, affondate fra le sabbie del Sahara e gli sterpi della prateria. Un’area geografica turbolenta, attraversata da faide etniche, da un’emergenza umanitaria fra le più urgenti del prima e del dopo coronavirus, e da un’incidenza delle forze jihadiste che, al momento, preoccupa non poco nelle regioni del Sahel. E la lente italo-francese, perché di questo si tratta, mira a scongiurare innanzitutto questo rischio: “L’interessamento dell’Italia nella regione – ha spiegato a Interris.it Alessandro Marrone, responsabile del Programma ‘Difesa’ dello IAI – va inserito in un determinato filone: fine 2017, il governo Gentiloni decide per la missione italiana in Niger, ed è la prima volta significativa in cui l’interesse del nostro Paese non è è solo Nord Africa ma anche in Sahel, perché si riconosce una connessione in termine sia di minaccia del terrorismo islamico che di gestione dei flussi migratori”.

Niger, est e ovest

Un asse non semplice, però, quello fra Italia e Francia. E non solo in relazione alle controverse vicende che hanno accompagnato il tentativo di descalation in Libia: “La Francia considera molto forte la minaccia del terrorismo islamico e continua a mantenere un forte interesse in una regione dove vi è un passato coloniale. Chiede aiuto ai partner europei, in Mali e altrove, ma vuole mantenere la posizione di leadership e guida. E’ difficile cooperare in questi presupposti, considerando anche che la Francia non è come gli Stati Uniti in termini di ombrello di sicurezza. A ogni modo, per l’Italia ci sono diversi interessi nel Sahel: innanzitutto, la stabilità del Nord Africa è legata a quella di questa fascia africana. Gradualmente c’è stato un interesse maggiore, in Niger è stato mandato un addetto militare che prima non c’era. In termini di canali di dialogo, di intelligence, di diplomazia militare c’è stato un incremento di presenza italiana. Numeri piccoli ma che possono fare la differenza, se con gli interlocutori giusti, specie nella formazione delle forze locali”.

Contrasto al fondamentalismo

Una missione internazionale che, posta la necessaria approvazione da parte del governo, rientrerà in quella che resta una priorità per l’azione geopolitica italiana: la stabilità del Nord Africa, essenziale anche in un’ottica di gestione delle rotte migratorie. In questo senso, l’intensificazione della presenza dei contingenti tricolori nelle regioni dell’Africa centro-settentrionale rientra in un programma di prevenzione contro l’escandescenza dei gruppi jihadisti ma anche di collaborazione e cooperazione con i governi locali, troppo deboli per controllare un quadro regionale dai confini labili: “Contrasto ai fondamentalisti islamici, gestione dei flussi migratori e quindi contrasto al traffico dei migranti. Poi, in alcune parti dell’Africa subsahariana c’è un discorso energetico, come nel caso del Golfo di Guinea. Ecco che si mettono insieme degli elementi per una cooperazione con la Francia facilitata, negli ultimi 12 mesi, dal cambio di governo. Il quadro strategico riconosce gli interessi reciproci e punta alla cooperazione su un terreno di convergenza. Un dato interessante, laddove sulla Libia si rimane su posizioni divergenti”.

Confini labili

Una missione che, dunque, non può prescindere da una sua connotazione regionale, preso atto della turbolenza etnica in determinate aree (come il Mali) e della progressiva fomentazione da parte dei gruppi jihadisti. Il tutto in un contesto funestato da un grave arretramento dei bisogni primari, per una popolazione già prima del Covid-19 fra le più povere a livello mondiale: “Questa missione ha una sua dimensione regionale, attraverso il formato del G5 Sahel, che comprende cinque Stati in cooperazione fra loro per contrastare queste minacce e che è il forum con cui interloquire, da parte europea, per questa missione”. Questo in un’ottica di collaborazione che resta la base sul quale sviluppare una strategia di contrasto alle tensioni endemiche di un’area geografica ampia ma, soprattutto, sostanzialmente indefinita, non nelle sue demarcazioni politiche, quanto nelle sue sfaccettature tribali: “E’ una regione in cui i confini fra gli Stati sono tracciati sulla carta ma non riflettono o rendono problematica la composizione tipica degli Stati. E in cui l’economia, l’elettricità, la demografia ma anche minaccia del fondamentalismo islamico sono assolutamente transfrontalieri. Vale per tanti teatri di crisi ma in particolare per il Sahel, dove i governi non sono così forti. Ci vuole un approccio regionale. E’ bene che l’Italia, dopo il passo in Niger, la sviluppi per il Nord Africa e il Sahel, realtà collegate all’interno delle quali collegare sforzi affinché le missioni in Niger siano sinergiche con Takuba e la stabilizzazione della Libia. Una volta messo tutto a sistema, l’Italia ha diverse competenze da mettere sul terreno. L’importante è che non rimangano siano com nelle singole missioni o nei singoli partenariati”.

Sahel, un quadro logoro

Va da sé che in un simile contesto, la cooperazione italo-francese vada a inserirsi in un operato che dovrà necessariamente andare oltre la semplice programmazione strategica. La stabilità necessaria a un’area in forte e variegata turbolenza ha scoperto il fianco alla crescita preponderante dell’operato dei gruppi jihadisti che, facendo leva sulle divergenze territoriali fra i gruppi etnici, fomentano una nuova, pericolosa escalation dell’odio fondamentalista. Un quadro aggravato dall’altrettanto pericolosa deriva emergenziale sul piano umanitario, ulteriormente incrementato dal Covid-19, il quale rischia di creare, a pandemia conclusa, una delle peggiori crisi dell’ultimo secolo. Uno scenario che la stabilizzazione geopolitica della regione avrà il compito di scongiurare.

 

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