AgenPress. Lo sapevamo già, ma ora abbiamo le prove: Alexei Anatolievich Navalny, leader dell’opposizione e nemico giurato di Vladimir Putin, è stato ucciso nella prigione di Yamalo-Nenets, dove era rinchiuso.
Un rapporto ufficiale dell’autorità penitenziaria russa confermerebbe che Navalny è stato avvelenato durante la sua prigionia nella colonia penale “Lupo Polare” di Kharp, situata nel gelido Artico. I giornalisti di The Insider, testata indipendente russa, hanno raccolto prove che confermano ciò che molti temevano: la morte di Navalny non è stata “naturale”. Questa spiegazione è una menzogna palese. L’inchiesta dei giornalisti investigativi ha svelato come la documentazione ufficiale sulla sua morte sia stata più volte manipolata dalle autorità russe, nel goffo tentativo di coprire un omicidio premeditato.
Questo copione è vecchio, lo conosciamo già: come per Anna Politkovskaja, Sergei Yushenkov, Paul Klebnikov, Alexander Litvinenko, Boris Berezovsky, Boris Nemtsov e tanti altri, anche Navalny è stato inghiottito dal tragico destino riservato a chi osa sfidare Putin. Prigione, torture, esilio, morte.
Yulia, la moglie di Alexei, ha raccontato che pochi giorni prima di morire, il marito lamentava dolori insopportabili al petto, allo stomaco, all’addome. Il rapporto dell’autorità penitenziaria descriveva vomito, convulsioni e svenimenti – sintomi che lasciano pochi dubbi: avvelenamento. Ma le perizie mediche sono state riscritte, cancellando ogni traccia di verità. Navalny, secondo i documenti ufficiali, era “in perfetta salute” fino alla sua morte improvvisa.
Navalny è morto in solitudine, avvolto nel buio e nel silenzio. Un epilogo già visto, in pieno stile di un regime criminale che non perdona e non dimentica.
La verità, però, non muore mai del tutto. C’è chi la conosceva già e oggi può gridarla ancora più forte, grazie al coraggio di una stampa libera, non comprata dai rubli né piegata dalle minacce del Cremlino: in Russia, chi sfida il potere non muore mai per “cause naturali”.