Agenpress – Un’attivista egiziana per i diritti della comunità Lgbt, la trentenne Sara Hegazy, si è suicidata nella sua casa in Canada, dove viveva in esilio dal 2018. Lo rende noto al Jazeera, ricordando che la ragazza era stata in carcere in Egitto per tre mesi, durante i quali era stata torturata.
Ciò accadeva alla fine di settembre del 2017, poi ad inizio ottobre l’arresto e la detenzione di pochi mesi, meno di quattro, sufficiente però a traumatizzarla: “Non si è più ripresa da quell’episodio – dice Amr Mohamed, il suo avvocato ai tempi della causa – . Non immaginavo di non rivederla più quando quella sera di inizio 2018 l’ho accompagnata all’aeroporto del Cairo. Le cause della sua morte sono lo Stato, la comunità e i media egiziani secondo cui non c’è spazio per chi difende la libertà e gli orientamenti sessuali”.
Ha lasciato un biglietto a familiari e amici chiedendo “perdono”. “La mia esperienza è stata dura e sono troppo debole per resistere. Ai miei fratelli, alle mie sorelle e agli amici. Ce l’ho messa tutta per sopravvivere, ma non ce la faccio più ad andare avanti, il dolore è troppo pesante. A te mondo, sei stato molto ingiusto con me, ma perdono te e tutti”. Il foglio di un blocco, sopra poche righe e la sua firma.
Tutto è successo per una bandiera sventolata durante un concerto. La sera del 23 settembre 2017, Sarah Hegazy si trovava al concerto dei Mashrou’ Leila, un popolarissimo gruppo libanese il cui cantante è anch’egli dichiaratamente gay. La Hegazy era in compagnia di un gruppo di amici ed altri membri della comunità Lgbt egiziana.
Sventolare e mostrare quella bandiera arcobaleno è stato un gesto raro e grave per l’Egitto, ma se non fosse stato per una tv locale che su quell’episodio ci ha costruito un caso, nessuno forse se ne sarebbe accorto. Mostrare un orientamento sessuale diverso è una colpa che può costare caro nel Paese guidato dal presidente Abdel Fattah al-Sisi. Il 6 ottobre è scattata la retata, decine di persone arrestate, tra cui Sarah Hegazy e Alaa Ahmed, finiti in carcere e poi entrambi scappati dal Paese nordafricano.
Tra gli addebiti nei suoi confronti anche quello di ‘promozione della devianza e della dissolutezza sessuale’ oltre ad essere ‘parte di un gruppo volto a danneggiare la pace sociale’. Termini arcaici che rimandano ad oscuri periodi storici, a pratiche medievali che apparivano dimenticate nel tempo e invece così tristemente attuali.
Nel gennaio del 2018 la scarcerazione: “È stato il periodo più brutto della mia vita, la prigione mi ha distrutto, mi ha ucciso” raccontava all’epoca, già segnata nello spirito. Eppure il peggio doveva ancora arrivare. A differenza della prigione, Sarah è stata sottoposta a doppia discriminazione sulla base delle sue opinioni politiche progressiste e di sinistra e sulla base della sua identità di genere. Il caso non era chiuso, il rischio di tornare in carcere molto concreto, senza contare le continue minacce ricevute a causa dei suoi gusti sessuali, considerati osceni. Da qui la scelta, pochi mesi dopo, di lasciare il Paese: “Non è più tornata in Egitto, lo avrebbe fatto solo quando sarebbe cambiato tutto – aggiunge Karim Abdelrady, avvocato egiziano, attivista ed amico della Hegazy -. Le cose per lei sono peggiorate quando, l’anno scorso, è venuta a mancare sua madre e lei non era qui al Cairo per starle vicino”.
Gli attivisti hanno reso omaggio a Hegazy sui social media, usando l’hashtag #raisetheflagforsarah.