“La non violenza è una scelta urgente”. Mobilitazione cattolica per riconvertire la spesa militare”

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Dai richiami del Papa, alle lettere “nella e dopo la tempesta”, dalla marcia Perugia-Assisi all’appello dei missionari per il disarmo: “Più investimenti per la sanità e il welfare”. A Interris.it l’intervista al gesuita Pino Di Luccio, docente di Sacra Scrittura e decano della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale


Agenpress. “La non violenza sarà una scelta molto importante e molto urgente”, spiega a Interris.it ii gesuita Pino Di Luccio, docente di Sacra Scrittura e decano della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, promotore lo scorso anno a Napoli della prima partecipazione di un Pontefice ad un convegno in una facoltà teologica.

Dai richiami del Papa, alle lettere nella e dopo la tempesta, dalla marcia Perugia-Assisi all‘appello dei missionari per il disarmo, cresce nel mondo cattolico la mobilitazione per riconvertire la spesa militare in investimenti per la sanità e il welfare. Dall’emergenza può uscire una società più solidale?

“Dall’emergenza uscirà una società più solidale se il desiderio del cambiamento che è stato avvertito in modo chiaro e urgente da molti nei giorni più critici della pandemia verrà elaborato con vero spirito di discernimento e verrà perseguito in maniera programmatica e con azioni concrete.’Una lettera dopo la tempesta”’ scritta da alcuni docenti e amici della Facoltà teologica dell’Italia meridionale, e ora tradotta, condivisa e dibattuta in alcuni Paesi europei, dell’area del Mediterraneo e dell’America latina, è un documento che vuole inaugurare il versante politico della teologia contestuale e della teologia del Mediterraneo. Un principio importante di questo documento è la non violenza basata sull’insegnamento di Gesù e del Vangelo”.

Qual è il nesso con la pandemia?

“La corsa ad acquistare ed accumulare armi e sistemi d’arma sempre più micidiali e sempre più costosi ha mostrato dinanzi a questa epidemia tutta la sua insensatezza causando anche l’impegno di ingenti risorse economiche. Così la retorica della violenza e della guerra appare inadeguata a garantire il bene dell’umanità. Obiettivi che donne e uomini di buona volontà devono testimoniare sono quelli di svuotare progressivamente gli arsenali, ridurre le spese in armamenti e promuovere un’educazione a prassi individuali e comunitarie fondate sul primato della nonviolenza e sulla certezza che solo con mezzi buoni si possono ottenere fini buoni, il primo tra tutti è quello di edificare la pace. Tutto ciò con la consapevolezza che l’utopia della profezia è sempre chiamata a fare i conti con le tensioni e le contraddizioni del tempo presente”.

Qual è un’alternativa possibile?

“L’emergenza continua a mettere tutti (non solo i parlamentari) dinanzi a scelte precise, in vari ambiti: personali e comunitari. Se il criterio di tutte le scelte che siamo chiamati a compiere diventa l’ascolto dello Spirito del Vangelo, che attualizza una nuova umanità la quale non pratica e non persegue obiettivi “mondani”, la non violenza sarà una scelta molto importante e molto urgente”.

Nel messaggio per la 15° Giornata del creato, la Cei fa riferimento all’ “eccesso antropologico” di cui parla Francesco nella Laudato sì. E’ possibile che la pandemia consenta all’umanità di correggersi?

“L’improvvisa tempesta della pandemia ci ha fatto prendere consapevolezza del bisogno della conversione dall’eccesso antropologico che è la promozione di sé stessi e dei propri interessi (che possono essere privati o di gruppi), a scapito della natura e del creato; voler prevalere sugli altri, mettendo tutto e tutti al proprio servizio e a servizio del proprio protagonismo. La prova della tempesta ci ha insegnato che siamo “tutti nella stessa barca” e che la salvezza di ciascuno dipende dal benessere dell’altro, soprattutto di coloro che sono più svantaggiati. L’abbiamo visto a proposito dei malati. Ma vale per tutte le altre categorie di persone fragili: dai migranti, ai poveri, ai carcerati, alle persone che sono sfruttate”.

Come si può uscire da questa condizione?

“Non si tratta solo di praticare la solidarietà con “l’altro” che consideriamo “più vulnerabile di noi”, mentre continuiamo a sentirci e crederci grandi e distinti da lui. Si tratta di recuperare il “principio di appartenenza e inclusione”: quell’altro sconosciuto “è parte di me”, in una dimensione di reciprocità senza la quale non c’è sostenibilità: poiché siamo interdipendenti, il male che facciamo agli altri è a noi stessi che lo facciamo, così come contribuendo al bene, influiamo sull’equilibrio e sulla sostenibilità comune”.

Si possono scorgere “segni dei tempi” nella risposta solidale all’emergenza?

“Certo. Sono “segni dei tempi” non solo i gesti concreti di solidarietà che si sono moltiplicati nei giorni più critici della pandemia, per esempio coi “cesti della solidarietà”. Devo dire che a Napoli questi gesti nei mesi scorsi venivano fatti con molta naturalità, come se fosse normale. Mi ha molto colpito la “naturale generosità” dei napoletani e mi ha confermato la convinzione che questa città può essere un laboratorio per una accoglienza generosa, solidale e inclusiva di persone diverse, per cultura, idee, religione, formazione, estrazione sociale ecc. L’emergenza diventa veramente un “segno dei tempi” se la solidarietà delle differenze è indirizzata al sostegno di chi è più fragile e bisognoso”.

In che modo il pensiero teologico può contribuire ad una presa di coscienza collettiva della situazione attuale?

“Con gli amici di “Una lettera dopo la tempesta” abbiamo ribadito che per uscire dall’emergenza della pandemia da Covid-19 vogliamo percorrere la via della speranza insieme a tutte le persone di buona volontà, credenti e non credenti, laici e religiosi di ogni popolo, religione e di ogni confessione, che voltano le spalle alla morte e aprono il cuore alla vita: nella difesa della giustizia e nella promozione della pace, nell’amore premuroso per la casa comune del creato, nell’accoglienza rispettosa di chi è profugo e di chi è diverso, nell’assistenza gratuita al malato, nella difesa coraggiosa di chi è discriminato, nel sostegno solidale al bisognoso, nell’educazione e nell’accompagnamento dei giovani e di chi dalla mancanza di speranza è come immobilizzato”.

Qual è stato il momento nel quale è nata questa sensibilità spirituale per uscire dalla tempesta?

“Grazie per questa domanda. È molto importante ricordare quando è nata la sensibilità spirituale per uscire dalla “tempesta”. Soprattutto perché è forte il rischio dell’illusione che passata la tempesta tutto possa tornare come prima. E invece gli effetti sociali ed economici della pandemia non permettono che tutto torni come prima. Potrà essere peggio di prima, o meglio. Ma non come prima. La sensibilità  spirituale per uscire dalla tempesta è nata nel tempo della Quaresima, attendendo la Pasqua, con le celebrazioni di quel tempo liturgico e soprattutto con le parole di Papa Francesco che aiutavano a vivere la prova della sofferenza alla luce della fede nella resurrezione di Gesù.Come sperare nella sofferenza? Come superare la sofferenza? La nostra speranza non è mero ottimismo, ma è un dono del Cielo: ‘Immette nel cuore la certezza che Dio sa volgere tutto al bene, perché persino dalla tomba fa uscire la vita’, ha detto Papa Francesco nell’omelia della Veglia pasquale”.

Come si difende la vita nella società odierna?

“Il principio spirituale per uscire dalla tempesta è la Vita abbondante, bellissima e ricchissima donata dalla resurrezione di Gesù, che va accolta sempre e ovunque, va difesa dove è minacciata, va promossa dove è messa a rischio, va custodita laddove è fragile, e va resuscitata laddove è spenta e mortificata. Questo principio spirituale è l’apertura del versante politico della teologia contestuale e del Mediterraneo che occorrerebbe implementare nella fase della “ripartenza”, insieme a tutte le donne e agli uomini di buona volontà”.

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