Agenpress – L’attenzione crescente con cui oggi viene considerato il mondo animale è senz’altro il risultato del diffondersi di una nuova cultura basata sul loro rispetto e questo è un bene. Tuttavia, fatti atroci come quelli accaduti al cane di Priolo (1), mostrano tutte le criticità della normativa vigente in tema di tutela dei diritti degli animali, ci riportano indietro anni luce.
In particolare, quando prevaleva una visione antropocentrica della vita in base alla quale l’uomo, ponendosi al di sopra di tutte le altre specie, si sentiva libero di dominare queste ultime e di distruggerle a suo piacimento, non provando alcun rimorso né temendo alcuna conseguenza legale. Oggi, per fortuna, non è più così poiché la nuova cultura che si sta formando tende all’eliminazione delle differenze di valore tra le diverse specie animali. Il che, sia chiaro sin d’ora, non significa affatto che un cane o un gatto godranno un giorno degli stessi diritti di un uomo – in capo al quale, tra l’altro, ci saranno sempre parecchi doveri in più – ma piuttosto che anche la loro vita ed il loro benessere dovrebbero avere un rilievo valoriale analogo a quello attribuito all’uomo, in quanto anch’essi sono essere viventi e scienti in grado di provare dolore e sofferenza.
L’utilitarismo della preferenza di Peter Singer In ambito etico-filosofico, l’australiano Peter Singer – che è uno dei contemporanei più importanti nel campo della bioetica – ha sviluppato la teoria dell’utilitarismo della preferenza sulla base della quale la valutazione della liceità etica di un’azione deve tenere conto delle conseguenze che questa provoca sull’intero sistema coinvolto, valutando le preferenze di tutti gli esseri viventi e quindi non solo degli esseri umani. Ne consegue che la valutazione della liceità etica delle azioni degli uomini nei confronti degli animali si elabora non in rapporto al loro livello di intelligenza, bensì alla loro capacità di provare dolore, sofferenza e tristezza. Lo stesso Singer afferma nel suo Animal Liberation che: “Se un essere soffre, non può esistere nessuna giustificazione morale per rifiutarsi di prendere in considerazione tale sofferenza. Quale che sia la natura dell’essere, il principio di uguaglianza richiede che la sua sofferenza venga valutata quanto l’analoga sofferenza di ogni altro essere.” (cfr., pag. 24, Animal Liberation, Il Saggiatore S.p.A. Milano, 2010).
La presenza nell’ordinamento giuridico
Appurato che almeno sul piano etico-filosofico, la sofferenza è utilizzata come paradigma valoriale di un essere vivente indipendentemente dalla sua specie di appartenenza, appare interessante provare a rintracciarne la presenza anche all’interno del nostro ordinamento giuridico. Ed invero si constaterà come in quest’ultimo il paradigma della sofferenza abbia assunto rilievo valoriale in relazione agli esseri umani solo recentemente, grazie all’introduzione del reato di tortura ex art. 613 bis c.p.; mentre, per i nostri amici a 4 zampe, il suddetto paradigma non rappresenti mai un parametro valoriale, provocando una grave disparità nella tutela loro garantita dall’ordinamento che, a mio avviso, è senz’altro insufficiente.
Abbiamo già detto come l’ordinamento giuridico italiano – inevitabilmente ispirato ad una visione antropocentrica del mondo – tuteli in primis il bene giuridico della vita (umana) mediante il perseguimento del reato di omicidio (art. 575 c.p.), per la configurabilità del quale è necessario e sufficiente che il soggetto agente “voglia” uccidere e ciò indipendentemente dalle modalità più o meno cruente individuate.
Anche nei delitti contro l’incolumità individuale, il paradigma della sofferenza quale criterio valoriale non compare esplicitamente. Si pensi, ad esempio, al reato di percosse (art. 581 c.p.) per la configurabilità del quale non deve derivare in capo alla vittima una malattia nel corpo o nella mente poiché la violenza non ne è elemento costitutivo e nemmeno circostanza aggravante. Eppure è probabile che la vittima delle percosse patisca una qualche sofferenza che, tuttavia, non rileva direttamente ai fini giuridici. E’ vero, inoltre, che qualora si provochi una lesione tale da derivarne una malattia nel corpo o nella mente, si configurerà il più grave reato delle lesioni personali (art. 582 c.p.) che sarà punito proporzionalmente alla gravità della lesione provocata ma non all’intensità della sofferenza patita, anche se è verosimile che più grave sarà la lesione e maggiore sarà la sofferenza!
Quindi, per le persone, i due beni giuridici anzi analizzati (la vita e l’incolumità personale) sono tutelati in quanto tali. Ed invero, anche la loro collocazione al Capo I del titolo XII del codice penale – intitolato non a caso “Dei delitti contro la persona” – ne rivela l’importanza e l’assoluta essenzialità. In particolare, però, è grazie all’intero titolo XII che l’ordinamento giuridico italiano tutela la “persona” intesa in senso lato, garantendone pertanto non solo la vita ma anche il benessere. A parere di chi scrive sembra plausibile rilevare come il paradigma della sofferenza “umana” quale rilevatore valoriale, entri in gioco in relazione non tanto al bene “vita/incolumità personale” – che, come abbiamo visto, è oggetto di tutela in quanto tale – ma in relazione al bene “benessere” inteso nella sua accezione più ampia. Ed infatti, il legislatore, nel coniugare il bene-benessere ha dovuto scomporlo in una serie di beni giuridici, ognuno meritevole di tutela, al fine di poter assicurare il benessere alla persona. E’ così che il legislatore, nel perseguire la tutela del macro bene-benessere, ha scelto di assicurare, tra gli altri, tutela giuridica al bene-libertà individuale (artt. 600 e ss c.p.) o al bene-libertà personale (artt. 605 e ss c.p.) ovvero anche al bene-libertà morale (artt. 610 e ss c.p.).
Ed invero, in alcuni dei delitti contro gli anzidetti beni giuridici, in particolare, in quelli in cui il legislatore abbia elevato l’elemento-violenza ad elemento essenziale del reato, è possibile riscontrare il tema della sofferenza, ma non ancora quale criterio valoriale.
Mi spiego meglio.
Per la configurabilità degli anzidetti delitti è quindi necessario (anche se non sempre sufficiente) il ricorso alla violenza da parte del soggetto agente. E’ il caso, ad esempio, del reato di violenza privata ex art. 610 c.p. che recita: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare (…) è punito (…)” ; vale a dire che non si configurerà il reato all’esame se il soggetto agente non userà violenza o minaccia per ottenere la sua finalità antigiuridica che lede evidentemente la libertà morale della persona. Corollario naturale di quanto appena affermato sembra poter essere la sussistenza, in capo alla vittima “costretta con violenza o con minacce a fare, tollerare o a non fare qualcosa”, di una sofferenza fisica o psichica. Tuttavia, di nuovo, la suddetta sofferenza che verosimilmente si manifesterà in qualche modo, non rileva direttamente ai fini giuridici né, quindi, assumerà un rilevo valoriale ai sensi dell’ordinamento giuridico.
Il reato di tortura
Affinché ciò avvenga, occorre attendere il reato di tortura di cui all’art. 613 bis c.p. – introdotto con legge 14 luglio 2017 n°110 (in G.U. n° 166 del 18 luglio 2017) in recepimento della Convenzione di NY del 1984 – che pure mira a tutelare il bene “libertà morale” al pari del citato delitto di violenza privata. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, nel delitto di tortura la libertà morale tutelata è intesa in senso lato andando, in particolare, a coniugare quel concetto di benessere personale in base al quale un essere umano non solo ha diritto a non essere costretto con la forza a fare o a non fare qualcosa ma, altresì, ha il diritto sacrosanto a non patire sofferenze fisiche o psichiche per mano altrui. Ciò che rileva è cioè la sofferenza umana, seppur per il tramite della tutela del bene-libertà morale dal momento che il nostro ordinamento giuridico non prevede la tutela del bene-benessere in quanto tale.
Ed invero, il delitto di tortura, oltre a prevedere come elemento essenziale la violenza e la minaccia, introduce l’elemento essenziale della crudeltà (chiunque “con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà), ma, soprattutto, mira a punire chiunque cagioni ad altri – che siano in una posizione di “svantaggio” rispetto al soggetto agente – acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a patto che il fatto sia commesso mediante più condotte ovvero che comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
Ebbene, in questo caso, seppur con parecchi – forse troppi – distinguo, sembrerebbe proprio che il legislatore abbia voluto attribuire un rilievo valoriale alla sofferenza fisica e psichica seppur facendola rientrare all’interno dell’ordinamento giuridico per la porta del bene-libertà morale.
Non spetta, tuttavia, a chi scrive né rileva ai fini del presente approfondimento, valutare il posizionamento del paradigma sofferenza all’interno del nostro ordinamento giuridico. Ciò che rileva ai fini di questo approfondimento è piuttosto constatare l’ingresso nell’ordinamento del concetto di benessere fisico e psichico da intendersi quale bene da tutelare – anche se non ancora meritevole di autonoma tutela ed infatti inserito all’interno del più ampio bene-libertà morale – al fine di evitare ogni forma di sofferenza fisica o psichica purché quest’ultima sia valutabile. In particolare, infatti, la norma ci dice che la sofferenza all’esame dovrà articolarsi mediante più condotte oppure dovrà tradursi in un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Ecco, dunque, come il paradigma della sofferenza assume un rilievo valoriale in rapporto alla persona umana. Ricapitolando, dunque, per la configurabilità del delitto di tortura occorre che:
- chi agisce lo faccia con violenza, minacce gravi o con crudeltà;
- chi agisce lo faccia per cagionare acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico;
- chi agisce sia in una posizione di dominio nei confronti della propria vittima che, infatti, sarà, ad esempio, una persona privata della propria libertà personale ovvero affidata alla sua custodia e comunque in una posizione di minorata difesa;
- che la sofferenza sia cagionata mediante più condotte o che comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
Ed infine, anche in questo caso, come avevamo tra l’altro visto in relazione ai delitti di percosse e lesioni personali che tutelano il bene giuridico-vita/incolumità personale, sussiste un rapporto di proporzionalità diretta tra la gravità delle lesioni riportate a seguito delle torture patite e la severità della pena. E’ appena il caso di riferire che il legislatore prevede pene molto severe se dalla tortura derivi la morte della persona come conseguenza estrema. In particolare, quindi, al pari che per i delitti contro la vita e l’incolumità personale, ciò che rileva sarà l’elemento soggettivo del soggetto agente per cui la pena sarà la reclusione di anni 30 qualora dalla tortura derivi la morte quale conseguenza NON VOLUTA; sarà, invece, quella dell’ergastolo se ne derivi la morte come conseguenza VOLUTA.
Ordinamento giuridico iniquo per gli animali d’affezione Ciò chiarito, dobbiamo purtroppo constatare come, invece, per i nostri amici a 4 zampe la tutela loro garantita dall’ordinamento giuridico sia assolutamente troppo debole e, a parere di chi scrive, fortemente iniqua per il seguente ordine di motivi.
Prima di procedere, tuttavia, occorre fare una precisazione ed, in particolare, che gli animali cui si rivolge la quasi totalità delle norme attualmente vigenti in tema di tutela di animali ,nonché evidentemente il presente approfondimento, non riguarda la totalità degli animali, bensì i cosiddetti animali d’affezione così come definiti ex art.1 dell’Accordo del 6 febbraio 2003 tra il Ministero della salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano secondo il quale sono d’affezione gli animali “tenuti o destinati ad essere tenuti dall’uomo per compagnia o affezione senza fini produttivi o alimentari, compresi quelli che svolgono attività utili all’uomo, come il cane per i disabili, gli animali da pet therapy, da riabilitazione e impiegati nella pubblicità”.
In particolare poi il Regolamento (CE) n° 998/2003 del 26 maggio 2003 individua le seguenti specie di animali domestici da cui restano quindi esclusi tutti gli animali selvatici:
- cani
- gatti
- furetti
- invertebrati (escluse le api ed i crostacei)
- pesci tropicali decorativi
- anfibi e rettili
- uccelli (esclusi i volatili previsti dalle direttive 90/539/Cee e 92/65/Cee)
- roditori e conigli domestici
Ridotta, dunque, la categoria di animali cui intendiamo rivolgerci con questo scritto a quella degli animali d’affezione così come pocanzi definita, torniamo ad analizzare i motivi per cui, a mio avviso, la tutela loro garantita dall’ordinamento è troppo debole ed iniqua.
“Dei delitti contro il sentimento per gli animali”
Innanzitutto, occorre rilevare l’inadeguatezza, per non dire la pochezza, della denominazione attribuita al Titolo IX bis del codice penale in tema di tutela dei diritti degli animali che, come già evidenziato, riporta l’incredibile dicitura “Dei delitti contro il sentimento per gli animali” (???) anziché, ad esempio, “Dei delitti contro gli animali d’affezione” confermando, tra l’altro, un logico parallelismo con il titolo XII del medesimo codice penale che, com’è giusto che sia, recita “Dei delitti contro la persona”. In tal modo, tra l’altro, emergerebbe ictu oculi il bene giuridico oggetto della tutela che, nel caso del titolo XII, è appunto la persona e parallelamente, nel caso del titolo IX bis, dovrebbe senz’altro essere “l’animale d’affezione” e non certo il sentimento umano verso quest’ultimi.
A chi scrive sembra di tutta evidenza come la dicitura “Dei delitti contro il sentimento per gli animali” sia ormai del tutto superata in quanto ancorata ad una visione assolutamente antropocentrica del mondo che oggi, almeno limitatamente agli animali d’affezione, non ha motivo di essere.
In secondo luogo, come pure già detto, sembra non poter essere condivisibile nemmeno la tipizzazione del delitto di uccisione di animali di cui all’art. 544 bis c.p. laddove – affinché si configuri – si richiede che il soggetto agente sia spinto dalla crudeltà e dall’assenza di necessità. Ed invero, mi chiedo il motivo per cui il legislatore non abbia preferito formulare l’anzidetto reato sulla falsa riga del delitto di omicidio ex art. 575 c.p. prevedendo semplicemente che “Chiunque cagioni la morte di un animale d’affezione è punito con la reclusione…”
Anche in questo caso, infatti, ciò che rileva – o meglio, dovrebbe a mio avviso rilevare – è il bene vita/incolumità che, anche per gli animali d’affezione, dovrebbe essere il bene giuridico prioritario da tutelare ed, in quanto tale, meritevole di tutela autonoma.
Sulla falsa riga dei delitti contro la vita/incolumità della persona, sono convinta che, anche per i nostri amici a 4 zampe, ciò che dovrebbe assumere un rilievo valoriale, almeno limitatamente al bene vita/incolumità, dovrebbe essere l’elemento soggettivo della persona agente nell’uccidere l’animale d’affezione, prima ancora del paradigma della sofferenza. In estrema sintesi, dovrebbe rilevare e si dovrebbe valutare l’ “intenzione” di uccidere in capo alla persona agente e ciò indipendentemente dalla crudeltà utilizzata che, al limite, potrebbe rappresentare una circostanza aggravante ma senz’altro non un elemento costitutivo del reato.
Tempi maturi
Credo, in conclusione, che i tempi siano maturi per prevedere, anche per i nostri amici animali d’affezione, la fattispecie dell’uccisione “volontaria”, di quella “preterintenzionale” (che va cioè oltre l’intenzione) e di quella “colposa” (contro l’intenzione) anche nella forma del tentativo; così come dovrebbe essere tempo di sanzionare altresì le condotte omissive soprattutto se si considera che la persona nei confronti dell’animale d’affezione si pone sempre – o comunque molto spesso – in una posizione di dominio. E’ verosimile, infatti, che la persona assuma quanto meno la custodia del proprio animale d’affezione con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di responsabilità.
E’ appena il caso di ricordare che, nulla e nessuno impongono ad una persona di prendere con sé un’animale d’affezione per cui, quando ciò accadesse, significa che la persona l’ha evidentemente voluto.
Tutto questo per dire che, almeno in ambito giuridico, il paradigma della sofferenza come rilievo valoriale non è, a mio avviso, sufficiente per tutelare i beni giuridici essenziali della vita e dell’incolumità nemmeno per i nostri amici a 4 zampe che, al pari delle persone, hanno diritto a vedersi riconoscere tutela piena almeno limitatamente al bene vita-incolumità.
Ritengo, invece, che il paradigma della sofferenza quale rilievo valoriale, ben possa essere utilizzato nella tutela del bene-benessere anche per i nostri amici a 4 zampe.
Come abbiamo visto, mentre per l’uomo il bene-benessere è tutelato per il tramite della tutela di svariati beni -tra i quali abbiamo approfondito il bene libertà morale sotto cui è stato collocato il reato di tortura che punisce, con le modalità e nei limiti analizzati chiunque cagioni la sofferenza umana – per gli animali da affezione il bene-benessere sembra ancora ancorato, tra l’altro debolmente, al bene-incolumità. Ed, infatti, oggi è tutelato attraverso la previsione di reati come il maltrattamento di animali (art. 544 ter c.p.) ovvero quello di spettacoli o manifestazioni vietati (544 quater) ovvero ancora quello di divieto di combattimenti tra animali di cui all’art. 544 quinquies.
Reato valutato non in sé ma per la gravità delle lesioni Ed invero, in tutti i reati appena menzionati, il legislatore prevede delle fattispecie in cui il benessere dell’animale inteso come incolumità psico-fisica viene valutato in base alla gravità delle lesioni riportate (lesioni, sevizie, lavori o fatiche insopportabili, strazio, ecc.), ma non esiste (ancora) un reato corrispondente a quello di tortura ex art. 613 bis c.p., previsto per le persone, che punisca chiunque cagioni acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico ad un animale d’affezione (…) Una radicale riforma per tutelare la vita animale in quanto tale In definitiva, penso che i tempi siano maturi per operare una radicale riforma del titolo IX bis del codice penale a partire dalla sua denominazione, per proseguire con l’introduzione dei reati di uccisione volontaria, preterintenzionale, colposa di animale d’affezione dove il bene giuridico tutelato sia la vita animale in quanto tale.
Quindi, a tutela dell’integrità psico-fisica dell’animale, occorrerebbe riformulare il reato di maltrattamento sulla falsa riga del reato di lesioni personali.
Infine, sarebbe a mio avviso auspicabile sostituire i reati di cui agli artt. 544 ter, 544 quater e 544 quinquies con l’introduzione del reato di tortura animale, grazie al quale si potrebbe finalmente introdurre il paradigma della sofferenza animale quale rilievo valoriale al fine di tutelare, accanto al bene vita ed integrità psico-fisica, altresì il bene-benessere dei nostri amici a 4 zampe.
In vista di una riforma siffatta potrebbe, forse, valere la pena approfondire la definizione dei cosiddetti animali d’affezione per verificarne la correttezza.
Angela Furlan, Presidente di Super Minus onlus, consulente Aduc