Meloni, energia pulita dal nucleare una grande prospettiva. Il governo farà tesoro del Manifesto sulla scienza

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AgenPress – “Considero questo manifesto della scienza promosso e redatto dall’Associazione, un documento estremamente prezioso, come prezioso non può che essere sempre il frutto del lavoro di un’associazione che rappresenta oltre 500 tra professori ordinari e top scientist. È un documento che, dal mio punto di vista, contiene moltissimi spunti fondamentali per il lavoro che la politica deve fare e quindi è anche un documento del quale il governo intende ovviamente fare tesoro. Io sono assolutamente convinta, e mi pare di condividerlo con l’associazione, che sia necessario rimettere al centro il dialogo tra uomini e donne di scienza da una parte e istituzioni dall’altra, particolarmente per il tempo che stiamo affrontando, che è un tempo fatto di copiose sfide estremamente complesse”.

Lo ha detto la premier Giorgia Meloni intervenendo all’evento “La Scienza al centro dello Stato” promosso dalla Italian Scientists Association.

“La complessità, chiaramente, delle società avanzate, in particolar modo, richiede conoscenza, richiede un approccio pragmatico, un approccio concreto, richiede studio, richiede analisi e questo è possibile solamente se noi siamo in grado di rimettere in campo seriamente una alleanza tra il mondo delle istituzioni, quindi il mondo della politica, e il mondo della scienza.

La nostra Costituzione dice che la politica e la scienza sono libere, e non potrebbe essere altrimenti, però la libertà, come sempre, impone e presuppone responsabilità. E da donne e uomini liberi come siamo, noi siamo chiamati a realizzare, chiaramente ciascuno nel proprio ambito, ciascuno con il proprio ruolo, ogni sforzo per perseguire l’obiettivo che alla fine ci unisce tutti quanti, che era quello che citava Alberto Angela: garantire un futuro migliore ai nostri figli e con esso garantire un futuro migliore alla nostra Nazione.

È un lavoro che possiamo e che, dal mio punto di vista, dobbiamo fare insieme, perché da una parte il politico non può fare a meno della competenza specialistica dello scienziato, del suo sapere particolare, dei dati che arrivano dalla sua ricerca, per esercitare il potere della decisione avendo tutti gli elementi e la conoscenza necessaria a discernere. Allo stesso tempo, lo scienziato ha bisogno del decisore politico per proiettare gli obiettivi della sua ricerca in un ambito di portata generale e in un ambito ordinamentale, per permettere, cioè, che i risultati del suo lavoro possano essere messi a disposizione di tutti, che alla fine è l’obiettivo di ogni persona di scienza.

Allora parliamo, in sostanza, di due ambiti che sono distinti ma che sono incredibilmente complementari: da un lato, la legittimità della competenza scientifica, dall’altro, la legittimità della rappresentanza politica; da un lato, l’oggettività del metodo scientifico, dall’altro la scelta dei valori e la pratica dell’etica della responsabilità.
Se da una parte la politica priva del supporto della competenza degli scienziati rischia di cadere nella demagogia, dall’altra l’apparato tecnico-scientifico privo di un ordine politico e di principi etici rischia di scadere nella tecnocrazia.

Io credo che per evitare questi rischi, scienza e politica debbano riconoscere l’una il ruolo dell’altra ed essere alleate nel perseguimento del bene comune.

Un grande Santo, Papa Giovanni Paolo II, iniziò una delle sue più famose encicliche, “Fides et Ratio”, dicendo: “La fede e la ragione sono come due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità”. Io sono convinta che la politica e la scienza siano esattamente come la fede e la ragione, ovvero due ali con le quali l’uomo può spiccare il volo, costruire il bene comune, però perché quell’uomo possa volare le due ali devono riuscire a muoversi insieme, devono riuscire a muoversi in modo coordinato.

Sappiamo che non è sempre accaduto. Sappiamo che lungo la storia non sempre queste due ali si sono mosse nella stessa direzione. Sappiamo che si sono invece scontrate non di rado, per la volontà di dominio che di volta in volta ciascuna ha tentato di esercitare sull’altra. Ci sono stati casi in cui la politica ha asservito la scienza, e l’ha resa strumento ideologico dai risultati disumani ed efferati, ci sono stati casi nei quali la scienza ha idolatrato sé stessa, si è pensata assoluta, reclamando un mondo nel quale tutto ciò che era scientificamente possibile doveva essere anche automaticamente lecito.

Ecco è per questa ragione che io credo che la direzione da seguire debba essere, invece, quella del dialogo. E il primo livello di questo dialogo è quello di ordine etico, che è il presupposto fondamentale per fissare una sorta di quei guard-rail indispensabili per orientare il cammino di entrambe nella stessa direzione.

Non tutto ciò che è tecnicamente possibile è perciò stesso eticamente lecito. Anche questo è un film che abbiamo già visto tante volte. C’è proprio un film recentissimo che lo racconta molto bene, film di grande successo – lo avranno visto molti di voi -, è la pellicola dedicata alla vita di Robert Oppenheimer, uno dei “padri” della bomba atomica. In quel film ci sono molti dei temi dei quali discutiamo oggi, questioni che attraversano la vita di ogni scienziato: da una parte l’ambizione della conoscenza, ma anche gli interrogativi sull’uso del potere che da quella conoscenza può derivare, l’angoscia della responsabilità che inevitabilmente quella conoscenza porta con sé. Io immagino che siano problemi che molti, anche qui, si sono posti nella loro vita, ma credo anche che siano problemi che lo scienziato non può e non deve affrontare da solo, ma che possa e debba affrontare questi problemi insieme a chi ha la responsabilità poi delle scelte, che è proprio la politica.

Penso a uno dei casi più famosi del rapporto tra scienza etica e politica, che fu il grandissimo dibattito sulla clonazione della pecora Dolly. Da una parte la scienza ci ha detto che era possibile clonare un essere vivente, dall’altra la politica ha fissato delle barriere etiche, confrontandosi anche con la scienza, ha detto no alla clonazione riproduttiva umana, cioè alla possibilità di poter creare un essere umano geneticamente identico all’altro, una fattispecie che sarebbe stata totalmente nuova.

È accaduto in passato, chiaramente accadrà ancora, e qui penso a tutti gli scenari che abbiamo di fronte, penso soprattutto agli scenari che sono connessi alla più grande rivoluzione del nostro tempo che è l’intelligenza artificiale generativa. Perché l’intelligenza artificiale generativa sta aprendo scenari con i quali noi siamo chiamati a confrontarci e con i quali siamo chiamati a confrontarci molto più velocemente di quanto oggi non si stia facendo, in questo caso parlo soprattutto della politica. Noi siamo abituati, eravamo abituati a un progresso che aveva l’obiettivo, che ha sempre avuto l’obiettivo di sostenere l’uomo, di ottimizzare le competenze umane, però quell progresso si concentrava essenzialmente sulla sostituzione di lavoro fisico e in questo consentiva all’uomo di elevarsi, di concentrarsi, per esempio nei lavori di organizzazione e nei lavori di concetto. L’uomo rimaneva al centro di questo processo.

Oggi rischia di non essere più così. L’intelligenza artificiale generativa in questo cambia tutto lo scenario, perché quello che oggi può essere sostituito è l’intelletto e inevitabilmente l’uomo rischia di ritrovarsi in un mondo nel quale non è più al centro, perché quello che ha impedito fino a oggi la sostituzione tra essere umano e macchina era l’impossibilità di sostituire l’intelletto. E questo è un grande tema, che non è l’unico tema che riguarda i rischi legati all’intelligenza artificiale, che ha ovviamente anche enormi opportunità.

Penso anche alla difficoltà, sempre più crescente, di distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è, con tutte le conseguenze che questo può avere sui processi decisionali, sui sistemi democratici, sugli equilibri globali. I deepfake sono l’esempio più famoso, è un esempio con il quale il grande pubblico ha imparato a familiarizzare, però noi sappiamo che i rischi sono molti altri perché sta cambiando continuamente, spesso senza che noi ce ne rendiamo davvero conto, il nostro modo di fare le cose.

Delle volte l’impressione che ho io in rapporto all’intelligenza artificiale, è che noi senza rendercene conto stiamo barattando la nostra libertà con la comodità. Potrebbe essere troppo tardi quando ce ne rendiamo conto. Non voglio dire che la tecnologia, questa tecnologia è negativa, voglio dire che senza adeguati processi, che sono politici, ma che la politica può fare solamente se ha tutti gli elementi per conoscere e giudicare quei rischi, noi rischiamo di arrivare troppo tardi. E questo anche perché la velocità tra la scienza e la politica, tra la tecnologia e la politica, purtroppo cambia molto. Il progresso corre in modo estremamente veloce, i processi politici decisionali tendono a rallentare.

Questo è uno dei grandi temi che noi stiamo affrontando a livello nazionale, che porteremo anche alla Presidenza italiana del G7 che come sapete si è materializzata quest’anno. E lo vogliamo fare chiaramente parlando e confrontandoci con il mondo scientifico su questa materia, con i grandi player internazionali, con le aziende che producono l’intelligenza artificiale generativa. Vogliamo farlo cercando di dare anima e corpo al concetto di algoretica, cioè dare un’etica agli algoritmi. Concetto che non abbiamo clonato noi, è un lavoro che inizia con una bellissima iniziativa organizzata nel 2020 dal Vaticano, ma credo che questa debba essere la bussola che accompagna il nostro lavoro come Nazione e chiaramente nei consessi multilaterali, perché queste non sono materie che gli Stati nazionali possono affrontare e risolvere da soli.

Chiaramente noi siamo da sempre, è stato detto e non potrei non ribadirlo, anche io la patria del genio e della scienza. La nostra storia è una storia costellata di scoperte straordinarie che hanno cambiato il corso della storia, da Archimede a Leonardo da Vinci, Galileo Galilei, Guglielmo Marconi, Enrico Fermi, Carlo Rubbia, Fabiola Giannotti.

Nei secoli noi abbiamo scoperto strade che altri non avevano neanche immaginato, e siamo stati spesso l’avanguardia dei tempi. È una capacità che nel nostro popolo è innata. Perché vale la pena di ricordarlo? Non vale la pena di ricordarlo per idolatrarci, per dirci che siamo stati bravi. Vale la pena di ricordarlo perché delle volte penso che tutti noi abbiamo la consapevolezza che è come se a un certo punto l’Italia, soprattutto si fosse convinta che aveva perso quella capacità di insegnare al mondo qualcosa. Ma non è la capacità che ci manca rispetto alla nostra storia, ai nostri trascorsi. Delle volte è la volontà che ci manca, o la consapevolezza del valore che abbiamo ereditato e del valore che ancora oggi abbiamo.

Allora io penso che un nuovo slancio da questo punto di vista sia possibile solo ed esclusivamente, come dicevo, se scienza e politica tornano a quell’equilibrio che è stato alla base della grandezza della nostra civiltà. Noi siamo italiani e siamo anche europei, siamo figli di un’Europa nella quale, non a caso, scienza, tecnica e umanesimo si sono fuse, e hanno reso fertile il terreno sul quale sono sorte le grandi cattedrali. Perché se ci pensate, quella della costruzione di una cattedrale è, secondo me, un’immagine che descrive molto bene il rapporto che dovrebbe esistere tra la politica e la tecnica. Senza le maestranze del tempo, il loro genio, il loro studio, non sarebbe stato possibile realizzare quei progetti. Ma senza la volontà di realizzare quei progetti, banalmente non sarebbero esistiti.

Oggi le sfide sono altre, ma il meccanismo secondo me deve rimanere lo stesso. Penso a uno degli ambiti che affrontate nel Manifesto, che è quello dell’economia circolare e dell’energia pulita. Alla politica il compito di indicare l’obiettivo, quindi ridurre al minimo l’impatto delle attività umane sull’ambiente, portare avanti una transizione energetica sostenibile e, dal mio punto di vista, non ideologica; alla scienza il compito di individuare le tecnologie che sono utili a raggiungere quegli obiettivi. Tutte le tecnologie: chiaramente quelle già in uso, quelle che stiamo sperimentando, quelle che dobbiamo ancora scoprire. Non parliamo solo di rinnovabili, parliamo di gas, parliamo di biocarburanti, di idrogeno, di cattura di anidride carbonica, parliamo di tecnologie che ci permettono di trasformare l’economia da lineare a circolare, di utilizzare gli scarti come materie prime, di rendere coltivabili terreni marginali e non utilizzabili dall’agricoltura a fini alimentari.

Senza dimenticare la grande prospettiva, il grande sogno, che arriva dalla possibilità di produrre, in un futuro non troppo lontano, energia pulita e illimitata dal nucleare da fusione. L’Italia è chiaramente la patria di Enrico Fermi, su questo storicamente non è seconda a nessuno e, grazie al know-how tecnologico del quale disponiamo, grazie alla nostra formazione accademica superiore, grazie all’attività di ricerca e sviluppo che viene portata avanti dai nostri centri d’eccellenza, dal nostro sistema produttivo, possiamo continuare a crescere, possiamo continuare a regalare al mondo nuove scoperte e un futuro migliore e diverso.

Un ultimo punto che io vorrei toccare prima di lasciare poi la parola agli altri relatori, soprattutto ai Ministri Bernini e Schillaci, che entreranno poi nel dettaglio dell’azione che il Governo sta portando avanti, dei provvedimenti che abbiamo varato finora a sostegno del mondo scientifico, è un altro ambito del quale voi vi occupate nel manifesto e al quale anche personalmente tengo molto. Ve ne occupate quando parlate di società della conoscenza. È chiaramente l’ambito della formazione. Ora, voi lo sapete meglio di me ma, secondo uno studio della Banca Mondiale, l’80% della ricchezza delle Nazioni più avanzate è immateriale, è cioè una ricchezza rappresentata dal sapere. È il sapere che in questo tempo fa la differenza, e lo farà sempre di più, soprattutto se noi guardiamo le cosiddette materie STEM, cioè alle discipline tecnico-scientifiche. Purtroppo in Italia gli indicatori ci parlano di un costante disallineamento tra domande e offerta. Per l’Istat meno di un quarto dei laureati italiani tra 25 e 34 anni ha studiato materie STEM, una percentuale che è inferiore alla media europea. Dall’altra parte le imprese italiane ci dicono che hanno una significativa difficoltà a trovare profili professionali che abbiano preparazione in queste discipline. Parliamo chiaramente delle materie che sono la base di tutte le grandi transizioni delle quali possiamo parlare, delle quali abbiamo parlato e parliamo anche questa mattina, nano e biotecnologie, neuroscienza, robotica, analisi dei dati, ingegneria civile, aerospazio, cioè parliamo di come si costruisce il futuro.

Chiaramente il nostro obiettivo è quello di invertire questa tendenza. Stiamo compiendo i primi passi in questo senso. Sia nell’ambito dell’istruzione e della formazione tecnica superiore, sia nell’ambito degli incentivi ai ricercatori perché possano rimanere in Italia, ma non solo: non dobbiamo solamente preoccuparci di non far scappare i nostri cervelli migliori, dobbiamo chiederci perché l’Italia, che è la patria che ci siamo raccontati, non riesce a essere l’attrattore che dovrebbe naturalmente saper essere. Perché chiaramente su questo bisogna lavorare con forza, consapevoli del fatto che ogni euro che si investe in una materia come questa da un moltiplicatore straordinario. Perché anche qui quando si parla di spesa il tema non è mai la spesa, il tema è che tipo di spesa è, il tema è che tipo di moltiplicatore quella spesa dà. Lo stesso euro investito in tre cose diverse dà tre moltiplicatori completamente diversi. Quando si investe su questa materia si sta investendo in ritorno di prodotto interno lordo, in ricchezza per la nostra Nazione con un moltiplicatore estremamente alto.

Allo stesso modo io penso che questa Nazione debba avere il coraggio di credere nei grandi progetti scientifici e tecnologici, è quello che stiamo cercando di fare con questo governo. Penso qui alla grande sfida che l’Italia ha davanti con la candidatura a ospitare l’Einstein Telescope. Parliamo di un progetto unico che ci permetterebbe di rivoluzionare il modo con il quale osserviamo l’universo, che avrebbe anche, come sempre accade per queste iniziative, un enorme ritorno in termini occupazionali, in termini di sviluppo del territorio che noi abbiamo candidato per ospitare questa straordinaria innovazione. Chiaramente è un’opportunità che non vogliamo perdere, l’Italia ha tutte le carte in regola per centrale questo obiettivo, chiaramente ha tutte le carte in regola come sempre se il sistema Italia decide di lavorarci compatto, insieme.

Lo abbiamo già fatto, del resto basti pensare alla costruzione in Cile del grande telescopio ottico infrarosso al mondo, l’Extremely Large Telescope, ma anche a tutti i settori nei quali le nostre imprese continuano in tutto il mondo a ottenere performance importanti, dall’elettronica, ai superconduttori, meccanica di precisione, intelligenza artificiale, anche e soprattutto sul nostro territorio nazionale.

La storia del nostro popolo è una storia fatta di grandi imprese, di creatività, di risultati che hanno impressionato il mondo. È una storia fatta di scelte, è una storia fatta di coraggio. A me piace spesso raccontare una di queste storie di coraggio, di queste scelte che hanno fatto la differenza, che è la storia di Edoardo Amaldi, uno dei “ragazzi di via Panisperna”. Nel dopoguerra gli venne offerto, come voi sapete, la possibilità di trasferirsi negli Stati Uniti, e forse sarebbe stato personalmente più redditizio anche allora, ma lui disse di no, decise di rimanere in Italia. E quella scelta è stata decisiva per portarci poi a un pezzo fondamentale del nostro lavoro, cioè alla creazione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, l’avvio delle istituzioni scientifiche internazionali come il CERN, al mantenimento e alla rinascita della capacità delle università italiane.

C’è un filo ideale che collega questa storia a quello di cui noi parliamo oggi. E quel filo conduttore è esattamente la capacità e la forza di saper fare scelte d’amore, ed è il coraggio di immaginare una visione e di saper credere in quella visione. Può sembrare un ossimoro, ma la verità è che se si smette di sognare perde anche la scienza. E allora l’Italia ha soprattutto questo problema: per un po’ di tempo ha dimenticato di sognare, e alla fine ha dimenticato anche quello che è capace di fare quando sogna e quando crede in ciò che sogna.

Oggi la nostra sfida principale, quella che anticipa e raccoglie tutte le altre, è esattamente questa: tornare a pensare in grande, tornare a credere in noi stessi, nel nostro talento, nelle nostre energie, non solamente sulla base di quello che è stato prima di noi, ma in base a quello che noi siamo oggi.
Non dobbiamo guardarci indietro e dire «beh, sì, tanto siamo stati» e pensare che l’eredità sia semplicemente decantare quello che c’è stato dietro. L’eredità ha un senso se si raccoglie, l’eredità ha un senso se si tramanda. Chiaramente, anche questo, nessuno può farlo da solo, ma possiamo decisamente farlo se ci crediamo tutti insieme. Alla fine conta sempre quello che ha detto uno dei più grandi filosofi della scienza, che era Karl Popper, “il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno. Oggi, domani e dopodomani”.

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