AgenPress – Ad avviare un’attività imprenditoriale in Italia sono rimasti solo gli stranieri. O quasi. Negli ultimi 10 anni le imprese attive guidate da titolari nati all’estero sono aumentate del 29,5 per cento (in valore assoluto pari a +133.734), quelle in cui a capo c’è un italiano, invece, sono scese del 4,7 per cento (-222.241). Delle 5.097.617 aziende attive presenti in Italia, ben 586.584 (pari all’11,5 per cento del totale nazionale) sono a conduzione straniera. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA.
Certo, il trend demografico registrato in questi ultimi anni nel nostro Paese ha sicuramente condizionato questi risultati. Tuttavia, tra tasse, burocrazia, caro-bollette, costo degli affitti e un senso perenne di precarietà che attanaglia la vita di tantissime partite Iva hanno smorzato in molti italiani la voglia di affermarsi nel mondo del lavoro attraverso l’autoimprenditorialità. Occasione, invece, che gli stranieri non si stanno lasciando scappare. Basta girare per le nostre città e ci accorgiamo ormai che diversi bazar, parecchi banchi dei mercati rionali, tanti negozi di alimentari, molte botteghe di frutta/verdura, altrettanti bar e ristoranti sono a conduzione straniera. Ma anche nei cantieri edili e in alcuni settori manifatturieri la presenza degli stranieri è sempre più diffusa. Non solo tra i dipendenti, ma anche tra i titolari d’azienda.
Nell’ultimo decennio (2013-2023), nelle 105 province d’Italia monitorate solo 7 hanno visto aumentare in termini assoluti il numero degli imprenditori italiani rispetto a quelli stranieri. Le realtà geografiche in cui gli stranieri con partita Iva sono cresciuti meno dei colleghi italiani sono tutte ubicate nel Mezzogiorno. Esse sono: Catania, Messina, Cosenza, Siracusa, Nuoro, Vibo Valentia e Palermo.
Il fenomeno è molto articolato e complesso e si presta a diverse letture. Diversi esperti sostengono che in alcuni comparti stia avvenendo un “effetto sostituzione”: le imprese straniere starebbero rimpiazzando quelle autoctone. Altri segnalano che gli immigrati presentano una forte propensione ad aprire la partita Iva perché ritengono più dignitoso lavorare in qualità di autonomi, anziché come dipendenti. In linea generale, comunque, possiamo riportare due considerazioni oggettive.
La prima: positiva. Chi apre una attività imprenditoriale dimostra di aver attivato un percorso di inclusione importante, perché è stato costretto a rapportarsi con alcune istituzioni pubbliche, eventualmente con un istituto di credito a cui è stato chiesto un prestito, periodicamente con il commercialista e una volta iniziata l’attività con i propri fornitori. Insomma, queste persone diventano parte attiva del sistema economico.
La seconda: negativa. Non sarebbero trascurabili le attività economiche a guida straniera avviate per “coprire” operazioni di evasione e commercializzazione su larga scala di merce contraffatta. Creando non pochi problemi anche di concorrenza sleale nei confronti delle imprese italiane dello stesso settore. Fenomeni, questi ultimi, che le forze dell’ordine devono continuare a monitorare con maggiore attenzione.