Il sociologo Maurizio Fiasco, cofondatore e componente del Comitato consultivo della Fondazione Insigniti OMRI, analizza la gestione esemplare dell’ordine pubblico durante gli eventi del 5 ottobre a Roma, evidenziando la strategia che ha delegittimato la violenza e limitato il rischio di radicalizzazione
AgenPress. La giornata di sabato scorso ha certamente comportato sacrifici notevoli per il personale delle forze di polizia. La gratitudine dei cittadini per il risultato comunque ottenuto, e dunque per aver impedito ben più gravi conseguenze, valga almeno a renderli più sopportabili, soprattutto a quanti ne portano ancora i segni.
La giornata mi pare ricca di insegnamenti, giacché, da quanto si è potuto apprendere, tutta la gestione è stata esemplare. Si è riaffermata la posizione di scrupolosa terzietà delle forze di polizia, nel garantire il rispetto dell’equilibrio tra diritto di manifestare e osservanza delle regole per l’ordine pubblico.
Sul piano tecnico, la laboriosa negoziazione, prima dell’evento e costantemente sul campo, si è sposata con la proporzionalità negli interventi più difficili. Di là della contingenza dell’occasione, tutto questo aiuta alla delegittimazione della violenza, e dunque incide quanto meno nell’ostacolare l’efficacia di un modello, purtroppo ben noto, che punta all’auto-espansione della diponibilità a commettere azioni illegali.
L’esperienza storica ci ha mostrato, infatti, come funzioni il management del comportamento illegale. Alla base vi è una perversa pedagogia che trasforma tante persone – inizialmente su posizioni radicali, ma non violente – in simpatizzanti e poi attori di gesti offensivi materiali contro le persone, le cose e in definitiva contro i tratti essenziali della convivenza civile.
Qualche notazione, riandando con la memoria agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e utilizzando una chiave sociologica di lettura. Ebbene, nel radicalismo si formano tre fasce concentriche o, se si preferisce la metafora, si presentano tre “scatole cinesi”. In quella più ampia e ovviamente maggiore sono collocate numerose persone che semplicemente condividono parole d’ordine (anche quelle molto discutibili) e che vogliono rendersi protagonisti di una protesta. Queste persone hanno i loro opinion leader che le orientano.
Nella fascia intermedia si ritrovano poi coloro che vogliono testimoniare “con l’azione”, ma fino al limite – pur sottile – del consentito nella legalità. In questa fascia si forma una sorta di “ceto politico di movimento”, che punta a esercitare una egemonia e a spenderla nella contrattazione (in varie forme) con le istituzioni e i mass media. L’obiettivo è la “visibilità”, anche in vista di futuri ruoli politici o sociali.
Il nucleo interno è invece tutt’altro che spontaneo. È costituito da una organizzazione strutturata, con dei leader che padroneggiano la metodologia della violenza di gruppo. A freddo, questo terzo ambiente non è legittimato agli occhi delle fasce esterna e intermedia. Ma è in competizione sia con gli opinion leader dei “radicali, ma entro le regole” sia con il ceto politico dei “radicali fino ai limiti della violazione della legge”. La domanda, in ultima analisi, è questa: chi consegue l’egemonia, ovvero chi raccoglie i frutti della protesta?
Dunque, alla vigilia e anche “sul campo” vi è interazione e competizione tra i leader delle tre fasce. E qui la differenza nella prevenzione del peggio la fa la sapienza del dirigente di polizia, in quell’arte che il compianto prefetto Aldo Gianni si sforzò per tanti anni di insegnare nell’Istituto superiore di polizia, dopo averla messa a punto proprio nel tragico 1977.
La prevenzione e dunque la gestione dell’ordine pubblico si affermano qual servizio istituzionale proprio quando – in modo coordinato – mirano a separare il nucleo organizzato degli atti vandalici e degli attacchi alle forze di polizia dal senso comune, dall’atteggiamento iniziale della massa dei manifestanti. Ne risulta smantellata la pedagogia delle forme antidemocratiche della protesta, cioè della violenza.
Analoghe considerazioni valgono – sia pur con decisivi adattamenti – anche di fronte alle tifoserie violente, sebbene con una complicazione ulteriore: la miscelazione di correnti del radicalismo politico con filoni di criminalità comune. La pressione “contrattuale” di questi ultimi si spinge, e talvolta ottiene, concessioni e collusioni da alcuni club sportivi.
Tornando all’esperienza del 5 ottobre a Roma, l’aspetto tecnico ineccepibile curato dalla Questura, il sacrificio e l’etica del servizio del personale hanno fortemente segnato la delegittimazione della violenza. Dunque un risultato da apprezzare, nel costante sforzo di limitare la seduzione della violenza che può avere in un processo, purtroppo ben noto, di radicalizzazione.
Mi pare che la conduzione dell’ordine pubblico si riallacci alla “storica” tradizione della Questura romana che negli anni tremendi del 1977 impedì più volte il passaggio dalle violenze gravissime a tragedie irreparabili. Ricordo la saggezza dell’allora capo di Gabinetto, dott. Vecchione, nei “sabati neri” delle guerriglie. Sarebbe davvero un peccato se gli insegnamenti di quegli anni rimanessero confinati nella memoria di chi li ha vissuti.