Simboli e archetipi tra Battiato e Sgalambro in un linguaggio di filosofia

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I simboli. I segni. Le metafora. Si incontrano gli Orienti e l’Occidente. Quanto Mediterraneo c’è in Franco? limite o oltre il limite. Il davanzale dell’infinito recita nel tempo. Un tempo sommerso che si intreccia alle metafore che ci accompagnano tra il ricordare e il vivere. In questo spazio-tempo si ascolta Franco Battiato.
C’è una linea tra gli orizzonti del vero e il filo che cattura il dubbio dentro il bisogno di infinita bellezza. L’incontro con Manlio Sgalambro resta importante e scavante. Le culture, a volte, recepiscono quello che non c’è più a due passi da noi. Ecco. L’infinito. Bisogna fare i conti con il tempo immortale e con l’io indecifrabile ma che si circonda del finito. Una raffinatezza che si trova chiaramente in Sgalambro.
Quando il canto non c’è più resta l’ombra del suono: “Il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”. Il cantico di Franco Battiato non ha smesso di essere. È Franco che ha smesso gli abiti terreni e il suo superare l’oltre è dentro un religioso viaggio tra il mistico e gli archetipi. Non mi (ci) ha portato soltanto musica, parole, cinema, orchestra, linguaggi innovativi e rivoluzionari.
Ha portato meditazioni pensiero contemplazione. Tre concetti che restano fondamentali per comprendere un paesaggio epocale che ha trasmesso Franco. Non si tratta di musica colta. Di mistero archetipo magia. Altri tre incisi nella ricerca della proposta tra misticismo e filosofia, tra letteratura e immagini, tra comunicazione e antropologia della religiosità. Il misticismo recuperato da Franco è la forte variante del tempo dello sradicamento. Manlio Sgalambro è fondamentale in questo.
Gli anni Settanta del Novecento sono la debolezza del pensiero, eppure Franco è in questi anni che ha lacerato la leggerezza dell’essere e del sembrare con un canto non solo alto e pesante ma profondamente radicate. Da questi anni sino ai Novanta. Ovvero dalla sperimentazione alla ritrovata tradizione rinnovata. Ma sottolineava: “Quante squallide figure che attraversano il paese,/ com’è misera la vita negli abusi di potere”, eravamo a “Bandiera bianca”. Da “Povera Patria” a “La cura”, tanto amata.
Dall’era del “Cinghiale bianco” a Beethoven e da qui all’estrema sensualità onirica del “Cantico dei Cantici” nei suoi fiori raccolti da Baudelaire e vissuti con lui da Manlio Sgalambro. Fino a quel viaggio colto come invito tra le terre arse e l’arsura dei mari. L’Oriente come rappresentazione del Pensiero: dalla Persia a Tunisi. In quella casa tra il bianco e il celeste nell’immenso mare che distanziava di breve la sua Sicilia. Che è quella di Sgalambro.
L’ombra delle parole è diventata in Franco l’ombra della luce sino a raccogliere il passo dei cammelli o i grani nella cruna delle lune sul deserto. La parola come la pittura, la sua, d’Oriente impastata. La musica non come canzone ma come Orchestra. Una sinfonia di Infinito come la danza dei dervisci che non ha parole ma linguaggio. Il linguaggio è, è stato, sempre un esistere oltre l’esistenza stessa.
Ogni elemento ha bisogno di essere cercato, come nella unicità di “E ti vengo a cercare” che si proietta nella lentezza di un tempo impareggiabile che non può essere dimenticato se non si ammette di essere un tempo perduto come nella reinterpretazione del testo di Adamo “Perduto amor…”. Infatti Battiato: “Vorrei tornare indietro,/ per rivedere il passato, /per comprendere meglio, /quello che abbiamo perduto”.
Il tempo ha la necessità del necessario. Ovvero il dimenticato e il perduto non sono concetti astratti ma semplicemente divergenti rispetto alla modernità della leggerezza. “Niente è come sembra”, non una circostanza. Ma un fatto nel destino e nella conoscenza: “Nulla è come sembra. Nulla è come appare perché niente è reale”.
Franco non ha mai avuto schemi e non conosceva regole perché nel misticismo esoterico dell’arte le regole non si pongono come problema. “Lascia tutto e seguiti” perché bisogna cercare l’infinito. Il sacro era il suo senso ontologico e metafisico dentro il superamento dell’al di là del bene e del male stesso.
Andare oltre l’ombra. Un cammino che soltanto i pellegrini in erranza di verità sanno compiere. Franco era in questo dettaglio. Era questo dettaglio. Non un chansonier ma un mistico che separava la parola dal silenzio, il silenzio dalla preghiera, il canto dal linguaggio.
Un pellegrino che ha abitato il suo pellegrinaggio. Sino a penetrare la bellezza. Perché? Perché so che: “Le nuvole non possono annientare il sole”. In molti miei libri, tra letteratura e filosofia nel percorso di un mosaicizzato misticismo, ho sottolineato l’importanza del linguaggio di Battiato cercando di solcare l’eterno dei linguaggi che sono immagini e restano immaginario.
L’ho attraversato, l’ho abitato, l’ho vissuto e non smette di parlarmi raccontandolo. Perché andare oltre “il bardo” è scendere in un “gorgo” e risalire sempre in un tempo che supera la stazione del morire verso la luce indefinita e indefinibile. Dunque, un anno fa ci lasciava Franco Battiato. Un viaggiare tra il mistero e il mito, il sacro e gli archetipi. Griglie che conducono alla filosofia non sistematica come ci ha insegnato Sgalambro.
PIERFRANCO BRUNI
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