Vaccini: Facta non verba

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AgenPress. Nemmeno l’ultima riunione della Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha prodotto alcun risultato. La proposta di India e Sud Africa di liberalizzare i brevetti contro il COVID-19 non è stata approvata nonostante l’appoggio maggioritario dei paesi membri dell’Organizzazione. Pur essendo una proposta che avrebbe sospeso anche altri diritti di proprietà intellettuale, la materia principale del contrasto tra paesi ricchi e poveri sono stati i vaccini.

Tra novembre e marzo, i paesi ricchi hanno più volte riconosciuto (G20 ad Abu Dhabi e G7 a Ginevra) la necessità di garantire a tutti l’accesso ai vaccini. Molto gettonata la frase: “Nessuno è al sicuro se non lo sono tutti”. Certo la stabilità del dato della percentuale di vaccinazioni effettuate nei dieci primi paesi (75% del totale delle vaccinazioni, che sale all’84% se si considerano i primi quindici) può dare adito a dubbi al riguardo, dubbi confermati dalla posizione dei paesi ricchi nel dibattito nella WTO.

In tale dibattito essi si sono trincerati dietro due argomenti: uno generale, di affermazione che la ricerca e innovazione suppongono che siano garantiti e protetti i diritti di proprietà intellettuale e l’altro specifico, dell’affermazione che una loro eventuale sospensione non comporterebbe un’improvvisa ondata di offerta di vaccini.

Quest’ultimo argomento, che ignora spudoratemente i problemi dell’accaparramento dei vaccini e delle gigantesche opzioni di acquisto da parte de paesi ricchi, è stato anche ripreso da una stampa favorevole di un paese produttore, che ha utilizzato la sua autorevolezza scientifica per sostenere che solo i paesi ricchi sarebbero in grado di produrre i vaccini. In realtà, non è così. Basti per esempio ricordare che in America Latina, oltre che dal Brasile che è contrario alla liberalizzazione, vaccini sono prodotti da Cuba e da un’alleanza tra Argentina e Messico, e che la Republica Dominicana ha dichiarato di essere anch’essa in grado di produrli ma la sua richiesta è stata ignorata. In Asia,  poi, ci sono due grandi paesi produttori, uno dei quali promotore della liberalizzazione.

Sono così cadute nel vuoto la richiesta di Medici senza frontiere, previa alla riunione di marzo, da noi ricordata proprio nei giorni in cui si riunì la WTO, e la dichiarazione della direttrice di politiche sanitarie della Confederazone Oxfam International, secondo cui nei paesi ricchi si sta vaccinando una persona al secondo (in realtà di più, ma l’immagine colpisce), mentre quelli di minori risorse ricevono poche decine di migliaia di dosi.

In effetti il confronto tra i paesi che vaccinano e quelli che non lo fanno continua a confermare le diseguaglianze iniziali. Le dosi applicate nei primi cinque paesi sono il 75% del totale e con i successivi cinque paesi si raggiunge l’84%.

La questione sarà discussa nuovamente dalla WTO in Aprile, ma è difficile condividere l’ottimismo della nuova direttrice generale, riguardo la possibilità che i produttori si seggano a un tavolo con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) o l’alleanza per i vaccini GAVI, del cui Consiglio lei era presidente prima di essere nominata direttrice generale della WTO, e giungano ad un accordo che permetta ai milioni di persone che aspettano con il fiato sospeso, di sapere che finalmente queste discussioni hanno permesso approdare ad una soluzione.

Qualcosa di simile era stato già proposto dal Segretario Generale della Nazioni Unite, includendo anche i Governi, che, soli, avrebbero la possibilità di imporre una liberalizzazione.

I Governi dei paesi ricchi sono di fronte a un dilemma, privilegiare gli interessi delle imprese farmaceutiche che spesso hanno sede o luoghi di produzione nel loro paese o agire per bloccare la pandemia anche nei paesi meno ricchi, con il fine di evitare sia un indiretto danno economico a medio termine, la cui entità renderebbe conveniente la sospensione dei diritti di proprietà intellettuale, che la diffusione di nuove mutazioni del virus, che, per altro, sarebbero forse gradita ai produttori dato che imporrebbero nuovi studi e la creazione di nuovi vaccini.

L’effetto economico negativo prodotto da interruzioni nelle catene di approvvigionamento certo comincerà a colpire alcuni settori, ma per il momento questo accade in misura ridotta, sebbene sarebbe interessante conoscere se le frequenti riduzioni nella produzione di vaccini, attribuite a problema nella fornitura di componenti essenziali per la loro produzione non siano un primo segnale di tali effetti.

In questo quadro, l’interesse dei paesi ricchi, prima che evitare queste conseguenze, il cui costo è maggiore di quanto possano aspettarsi di guadagnare le industrie farmaceutiche, pare essere proteggere gli interessi di queste, anche se questo risultato è ottenuto in maniera indiretta, affermando la priorità di vaccinare i propri cittadini.

In questo modo l’attenzione viene spostata sulla problematica della sicurezza dei vaccini, e passa in sott’ordine il fatto che le disuguaglianze nelle vaccinazioni e il ritardo con cui esse sono fatte nei paesi meno ricchi contribuiranno all’aumento dell’insicurezza e del rischio di futuri contagi.

Un esempio di questo spostamento lo fornisce il caso delle recenti sospensioni del vaccino AstraZeneca in molti paesi europei. I fatti sono noti. Alcuni decessi, e trombosi, in certi casi di un tipo raro, hanno condotto vari paesi europei a sospendere l’applicazione dei vaccini AstraZeneca. Queste decisioni sono state prese nonostante, come hanno ripetutamente ricordato l’EMA e l’OMS, non si avesse evidenza certa di una loro connessione con le vaccinazioni ricevute, ma soprattutto, nonostante l’assoluta irrilevanza statistica dei dati, che, anche nell’ipotesi di una conferma dell’effettiva esistenza di una tale connessione pur sempre confermerebbero ampiamente che il rischio di morire per un caso avverso di vaccinazione è minore di quello di morire di COVID-19. Questa conclusione, incontrovertibile a livello globale, non è modificata, se non nella differente valutazione di quanto il rischio sarebbe minore, se si effettuano distinzioni secondo l’età e il genere.

L’EMA ha ribadito oggi che non risulta provata nessuna correlazione tra i casi avversi che si sono osservati e le vaccinazioni, in particolare quelle che hanno usato i vaccini AstraZeneca, e lo stesso è stato confermato dalla Società Internazionale sulla Trombosi. Questo mostra l’irrazionalità di decisioni affrettate che possono generare nella popolazione reazioni emotive.

Nel caso specifico della trombosi secondo i dati della Gran Bretagna, dove il numero di vaccinazioni Pfizer e AstraZeneca è confrontabile (intorno a 10 milioni, essendo di più le Pfizer, per circa il 10%)  i casi osservati di embolia polmonare e mancanza di piastrine (una delle caratteristiche trovate strane in Germania) sono in pari numero, mentre quelli di trombosi venosa profonda sono maggiori nel caso degli AstraZeneca, ma comunque né l’uno né l’altro sono maggiori dell’incidenza normale.

Quindi ben vengano maggiori studi, per esempio per comprendere se esista una spiegazione del divario in genere ed età dei casi tedeschi, però continuando la campagna di vaccinazione e soprattutto rassicurando la popolazione.

Ma se la base di queste sospensioni non è stata una doverosa precauzione, come le si può spiegare?

Una prima spiegazione potrebbe essere che si è trattato di una reazione dei maggiori paesi europei ai ritardi di AstraZeneca nella consegna delle dosi acquistate, però ritardi  e tagli nelle forniture sono stati annunciati anche da altri produttori,

Pare più probabile cercarne le radici o almeno un catalizzatore di queste decisioni  nella guerra dei vaccini e nella diplomazia dei vaccini.

Le reazioni emotive si cui parlavamo, se stimolate grazie ai social e una saggia distribuzione delle notizie possono dar luogo a distinzioni tra i vaccini, favorendone alcuni rispetto ad altri, creando così le condizioni per assumere quel genere di decisioni.

L’accettazione a priori della decisione EMA annunciata a Bergamo dal presidente Draghi è garanzia che l’Italia non sarà influenzata nelle sue decisioni da altre valutazioni che quelle scientifiche. Però alcune riflessioni sono opportune.

L’AstraZeneca è una società britannica e le ricerche che hanno condotto al vaccino sono dell’Università di Oxford. Quindi, dopo la Brexit, non sono europee, mentre europea è la società tedesca BioNTech, associata al vaccino Pfizer, come la francese Sanofi, che dopo aver sospeso le sue ricerche, ha ricevuto la licenza di produrre il vaccion Pfizer. È pur vero che vari laboratori di produzione dell’AstraZeneca, come quello di Pomezia in Italia, si trovano in Europa, però si stanno avendo accordi per rendere possibile la produzione Pfizer in paesi europei che finora non lo hanno fatto.

Quindi, pur riconoscendo che i casi avversi registrati in Europa possono aver contribuito a favorire la decisione di sospendere l’utilizzo del vaccini AstraZeneca, non si può escludere che la lotta commerciale abbia in qualche misura almeno reso più appetibile una decisione che potrebbe essere indicativa di un cambiamento nelle politiche di vaccinazione europee. Tra questi possibili cambiamenti non va però annoverata la possibile produzione in Italia del vaccino russo Sputnik V, se, come è stato dichiarato sarà prodotto per l’esportazione verso paesi terzi.

Osservazioni analoghe possono essere sugggerite da quanto accade dall’altro lato dell’Atlantico, dove l’approvazione dell’AstraZeneca da parte della FDA negli Stati Uniti, sta avendo ritardi grandi in  confronto con la rapidità con cui sono stati autorizzati Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson. Ovviamente c’è una spiegazione tecnica, nella questione dei tests con mezza dose, ma non pare da escludere che ci siano anche spiegazioni politiche riflesso di un cambiamento nelle priorità della política estera americana. L’Amministrazione precedente aveva contribuito a finanziare in misura importante il vaccino britannico (1.2 miliardi di dollari), mentre la nuova non aveva finora preso in considerazione l’eventualità, che pure sarebbe stata políticamente utile, di inviare ad altri paesi, che le userebbero senza problema, le dosi di AstraZeneca già acquistate e non utilizzate per la mancanza di autorizzaziona dalla FDA. Nel frattempo molti di quei paesi stanno dirigendosi ai vaccini cinesi e russo.

È però di poche ore fa la notizia ufficiosa, ma confermata dal ministro degli Esteri messicano che ha dichiarato che sarà annunciata nella mattina di venerdì, che il presidente Biden avrebbe accettato la richiesta del Presidente del Messico di prestare 2.5 milioni di dosi di AstraZeneca. L’esistenza del progetto e le quantità indicate sono state confermate dalla portavoce della Casa Bianca. La ragione giustificatrice è il controllo della pandemia che non conosce frontiere e infatti le notizie ufficiose includono altre 1.5 milioni di dosi, anch’esse prestate, al Canadà. Tuttavia, nonostante le smentite, la decisione relativa al Messico non parrebbe indipendente da un impegno del Messico a contrarrestare i flussi di immigranti centroamericani e ricevere famiglie espulse in base all’US emergency health order.

Il business dei vaccini è gigantesco e anche esposto a speculazioni a breve termine per una discreta volatilità delle azioni delle compagnie produttrici. A questo riguardo può essere interessante confrontare il valore delle azioni delle compagnie occidentali menzionate e di una indiana che ha partecipato attivamente ai test per il vaccino russo.

La tabella seguente ne riporta i valori, in riferimento al loro valore sei mesi fa fissato uguale a 1, alle date del 2 novembre e di oggi, oltre a indicare il valore massimo che hanno avuto durante questi sei mesi.

Compagnia2 novembre18 marzoValore massimo
Moderna0.9772.0582.706
BioNTech1.2991.5461.932
Pfizer0.9801.0491.248
Johnson & Johnson0.9561.1061.175
AstraZeneca0.9080.8331.030
Dr. Reddy0.9450.8331.053

 

A tutt’oggi sono state vaccinate circa 400 milioni di persone, e siamo solamente nella prima fase della vaccinazione mondiale. Il bacino potenziale è venti volte maggiore. Per le grandi imprese, AstraZeneca, il cui vaccino è meno costoso è un concorrente pericoloso. Di fronte alla vastità del mercato potenziale è comprensibile che il premier britannico Boris Johnson sia rassicurante e che politici europei sottolineino la qualità dei vaccini prodotti in Europa, commentando a mezza voce che l’AstraZeneca sarebbe insicuro per le persone più anziane. È forse meno comprensibile che gli Stati Uniti stiano sottovalutando (la decisione di prestare vaccini al Messico non modifica questo giudizio) una possibile perdita di influenza in America Latina e il rafforzamento di quella cinese in Africa e russa in Europa, a meno naturalmente che questi svantaggi politici siano valutati minori della promozione dei vaccini prodotti negli Stati Uniti rispetto all’AstraZeneca.

Che la geopolitica sia la chiave di lettura di molti di questi problema e che sia spesso marginale o strumentale l’uso di dati occasionali di casi avversi, parrebbe confermato dalla mancata fornitura indiana alla Gran Bretagna di 5 milioni di dosi di AstraZeneca e dalla minaccia da parte della presidente Van der Leyden di uso dell’art. 122 dei Trattati europei. Non può non colpire il contrasto tra questa minaccia di sospensione dei diritti di proprietà intellettuale e la posizione di chiusura dei paesi europei nella WTO.

Riusciranno i paesi di minore risorse con interruzioni nelle forniture o nelle istanze internazionali a condizionare i paesi ricchi ed ottenere che la sospensione dei diritti di proprietà intellettuale dei vaccininon non sia solamente legittimata da problema interni alla comunità dei paesi ricchi? Lo sapremo in Aprile quando questi avranno una nuova opportunità, non solo di rispondere alla domanda di quelli di meno risorse, ma anche di evitare che venga scossa la fiducia negli organismi internazionali, concretando in azioni i loro impegni verbali.

Poi, quando la pandemia sarà superata, vedremo chi ha vinto e chi ha perso negli scontri geopolitici sul vaccino. Però il prezzo di questi non può essere pagato con le vite dei cittadini dei paesi di minori risorse.

 

 

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